Ho sempre subìto il fascino del treno. Locomotive e carrozze mi piacevano fin da bambino, più delle macchinine, così come, da adolescente, preferivo la bicicletta alla moto. Uno dei primi regali di Natale che ricordo di aver enormemente apprezzato era stata una pista con i binari, la locomotiva, le carrozze e tutto il resto, da montare e da far arrivare in una piccola stazioncina di legno. Mentre altri bimbi giocavano con il polistil e le automobili, io mi divertivo a comporre e a far partire i treni. Mi ricordo emozionato quando mamma mi portò per la prima volta in stazione ad attendere papà, in arrivo dalla Liguria, così come lo ero, ancora di più, il giorno del mio primo viaggio in treno. Trovavo quella dimensione molto conviviale. Potevi farti i fatti tuoi, ma contemporaneamente sentire quelli degli altri e curiosare fuori da quelle grandi finestre con la campagna che ti sfrecciava attorno. Mangiavi i tuoi panini, bevevi le tue bibite, leggevi, dormivi, insomma, non c’erano divieti, se non quello, classico, di bestemmiare, o di sputare per terra, come da apposita targhetta bullonata appiccicata in ogni scompartimento.
Crescendo, mi piaceva studiare le facce delle persone all’interno delle carrozze e scegliere lo scompartimento giusto dove fermarmi, secondo lo stato d’animo del momento, a seconda che volessi stare da solo, o con gli amici, o anche solo sperare che il destino volesse farmi conoscere qualche bella ragazza.. In seguito, il treno era diventato un buon modo per viaggiare, o anche soltanto spostarsi, economico e, tutto sommato, abbastanza puntuale. Quanti tour, quante vacanze, quante esplorazioni di vita avrei percorso con quel mezzo, che riduceva le distanze e amplificava il gusto del viaggio.
Nelle mie fantasie da bambino avevo, certo, messo in conto di poter una volta prendere il treno per andare a seguire il Toro in trasferta. Ma fino al 24 marzo 1974 non avevo considerato che potesse esistere l’ipotesi di avere un treno tutto per te e per i tuoi fratelli, un treno fatto solo per i tifosi del Toro, insomma, un treno speciale.

 

Quella stagione papà aveva fatto l’abbonamento nei “Parterre” per sé, per me e per mio fratello, quindi a nessuno di noi passava neppure per la testa l’idea di perdere anche una sola partita in casa. Domenica 10 marzo il Toro aveva giocato al Comunale con la Samp. Le precedenti due di campionato erano state due sconfitte, in casa con il Cagliari e a Milano con l’Inter. Là, tre gol di Boninsegna erano costate la panchina a Gustavo Giagnoni, l’allenatore carismatico con sciarpa e colbacco, che ci aveva portato ad un passo dallo scudetto solo un paio di stagioni prima. All’inizio della partita con la Samp, dal settore occupato dai Fedelissimi Granata, era partito, forte, come una sorta di omaggio, un incitamento a Giagnoni, che era stato sostituito con Edmondo Fabbri, detto “Mondino”, che non stava simpatico quasi a nessuno da quando aveva riportato ingloriosamente a casa l’Italia dalla disfatta con la Corea, anche perchè non aveva saputo valorizzare come si sarebbe dovuto quel fenomeno chiamato Gigi Meroni.
L’arbitro Giunti aveva assegnato un rigore invisibile ai doriani, realizzato da Maraschi, e sul mio diario avevo riportato che ne aveva negato qualcuno a noi. C’era stato un fitto lancio di oggetti di ogni genere dagli spalti e lo stupendo gol di Paolino Pulici non era servito ad altro che a pareggiare 1-1. Il mercoledì successivo il giudice sportivo aveva completato le operazioni, sanzionando il Torino con una giornata di squalifica al capitano, Giorgio Ferrini, e un turno al campo. Il successivo match casalingo, quello di domenica 24 marzo, si sarebbe dovuto giocare in campo neutro, ad almeno cento chilometri di distanza da Torino.
Le mie prime reazioni erano state di rabbia e di delusione. Che senso aveva privare venticinquemila spettatori di una partita in casa, che molti avevano già pagato in abbonamento, per un omaggio di frutta e verdura che Giunti non aveva gradito?
Poi era arrivata la brutta sconfitta della settimana successiva a Firenze e la voglia di restare vicino alla squadra si era fatta ancora più forte. E, se non fosse bastato, il presidente Pianelli aveva portato la mano al portafoglio e aveva annunciato che avrebbe fatto mettere a disposizione dalle Ferrovie dello Stato, a sue spese, un treno apposito per portare gli abbonati a Novara, sede prescelta come campo neutro per Torino-Vicenza. Altro che braccino corto…
Avveniva, così, il mio battesimo esterno al seguito del Toro, non con una trasferta, ma con una gara in campo neutro, con un treno speciale.
Mi aveva colpito subito la capillare organizzazione della comitiva. C’erano almeno venti vagoni e forse i treni erano più d’uno. Papà aveva un tagliando che riportava il numero del vagone, quello dello scompartimento e i tre numeri dei posti per sé, per me e per mio fratello. C’erano bandiere dappertutto, sciarpe, foulard, trombe, tamburi e tutto l’armamentario da stadio. Abituato a vedere la partita nei distinti centrali o, come in quella stagione, nei parterre sotto la tribuna centrale, mi accorgevo d’improvviso che esisteva tutta una fetta di tifoseria che non avevo mai avvicinato, quella delle curve. Gente spiccia e passionale, che fossero ragazzi poco più grandi di me, o adulti, o anziani, che già mi incuriosiva da lontano e che, adesso, mi affascinava da vicino.

Era stato coinvolgente vedere il treno partire e sentire la gente cantare i cori di sostegno per la squadra. Poi, arrivati in un attimo alla stazione di Novara, era stato tutto un chiedere gli uni agli altri quale fosse la strada per lo stadio, quando bastava seguire quelli che avevi davanti. I novaresi non avevano mai visto tanta gente tutta assieme e la gente del posto ci guardava come se fossimo stati marziani.
Papà aveva avuto la buona idea di raggiungere subito lo stadio, così avevamo preso posto in una specie di gradinata centrale, già strapiena, ma non ancora colma. La partita, poi, si era dipanata in modo finalmente positivo, grazie al gol in apertura da Graziani, che ci aveva condotti alla vittoria, nonostante il consueto rigore negato.
Tutto era andato per il meglio: la giornata di sole, la vittoria, il sano divertimento, le oltre ventitremila presenze certificate dai giornali del lunedì, l’assenza di qualsiasi incidente. A papà era piaciuto molto l’ambiente, che si era rivelato cordiale, famigliare, onesto, organizzato, senza prepotenze o abusi, insulti gratuiti o maleducazioni varie. Una esperienza così positiva, insomma, che si sarebbe dovuta presto replicare.
L’occasione non mancò a cinque giornate dalla fine dello stesso campionato, quando avrei potuto assaporare la prima vera trasferta della mia vita, in quel di Marassi. A partire da Novara, il Toro del Mondino aveva infilato un filotto di nove risultati utili consecutivi, che avrebbe permesso alla squadra di chiudere la stagione al quinto posto, appena un punto sotto l’Inter. Dopo quattro di quei risultati utili si profilò la trasferta di Genova contro i Grifoni. Tutto giocava a favore della partecipazione all’evento di una famigliola della media borghesia di quei tempi: mamma a casa con la sorellina, papà ad occuparsi dei due figlioli adolescenti, giornata di sole pieno, classifica tranquilla, squadra che stava giocando bene, distanza chilometrica accettabile, costi contenuti e ambiente favorevole.

 

Fabbri aveva disposto il Toro in attacco con un assetto diverso da quello classico operato da Giagnoni. Nella sua testa c’era l’idea che Claudio Sala potesse operare come un centravanti arretrato, oggi si direbbe rifinitore, alle spalle di due punte larghe, che erano gli inarrestabili gemelli del gol. Al poeta quella disposizione non piaceva più di tanto, ma se la faceva andare bene; Pupi-gol e Cecco-gol, poi, avrebbero fatto rete in qualunque posizione un mister li avesse messi.
Il Genoa era piazzato malissimo. Finalmente tornati serie A, dopo i troppi anni trascorsi tra cadetteria e serie C, i grifoni si erano presentati alla massima serie con un gioco anche piacevole, ma con scarsissimi sbocchi offensivi e la classifica li penalizzava. Quella, per il Genoa, era la classica partita da “ultima spiaggia”, dentro o fuori.
Il treno speciale ci aveva lasciato a Genova Brignole in tarda mattinata e avevamo subito raggiunto il quartiere di Marassi attraverso il sottopassaggio pedonale che sboccava nei carrugi. Papà aveva adocchiato una trattoria in piazzale Marassi, appena sotto lo storico carcere genovese, che ci aveva sfamato con trenette al pesto e cima ripiena. A quel punto eravamo pronti per la partita, che per me aveva immediatamente rappresentato una novità, cioè il biglietto di curva. Già, perché essendo in trasferta e con il treno speciale, papà aveva optato per il tutto compreso: treno + biglietto di Gradinata Sud, prenotati e pagati in anticipo.
Preso posto sul centro destra della curva, seduti sugli scaloni della Sud, avevamo a disposizione tantissimo posto. Al centro si erano piazzati i tifosi più caldi, con tamburi e bandieroni, poi, in modo variegato, tutti gli altri avevano cominciato a riempire gli spazi vuoti. Eravamo entrati con largo anticipo sull’inizio della gara e, quando mancava circa un’ora all’inizio della partita i capi club ci avevano chiesto di stringerci verso il centro. Saremmo stati testimoni di una esperienza che raramente si sarebbe osservata in quegli anni, ma anche in quelli a seguire, su un campo di calcio. I genoani avevano deciso di contestare la presidenza con una manifestazione clamorosa: avevano deciso di tenere la Gradinata Nord completamente vuota e per farlo con successo avevano l’esigenza di permettere a tutti gli abbonati di sistemarsi altrove. Così i capi della Fossa dei Grifoni avevano chiesto ai nostri il permesso di vedere la partita in una parte della Gradinata Sud e nella tribunetta laterale coperta, che faceva parte dello stesso settore. Nasceva in quella circostanza un gemellaggio storico, che avrebbe accompagnato il mio iter di tifoso da ragazzo, fino agli eventi della retrocessione del 2009. Un iter che avrebbe fatto del Genoa la mia seconda squadra, sia per quell’amicizia, sia per i tanti amici che avevo e che impazzivano per i colori rossoblu. Godersi la partita a contatto con i tifosi avversari, senza aver mai motivo non dico di litigare, ma neppure di discutere, era stata un’esperienza indimenticabile, così come gli applausi e i cori reciproci, durante e alla fine della gara.

 

L’altra esperienza forte della giornata era rappresentata da quello stadio. Un campo squadrato, con i terrazzi e i tetti delle case circostanti a fare capolino, con il campo che finiva direttamente nella rete di recinzione e non in una anonima pista di atletica. Pieno di nostalgia, papà aveva evocato il Filadelfia, masticando amaro sulla fortuna che Marassi poteva rappresentare per Genoa e Samp, fortuna che né grifoni né doriani avrebbero saputo meritare in quella stagione, visto che alla fine del torneo sarebbero retrocessi in coppia da ultimi e penultimi. Io mi ero goduto il gioco e la partita mi era parsa più bella e avvincente che mai, grazie alla stretta vicinanza tra spalti e campo. Casarin ci aveva assegnato due netti rigori a favore nella seconda parte della ripresa e Pupi li aveva realizzati entrambi. Nei miei conti mancava un gol, a mio parere annullato senza motivo, ma anche un probabile rigore per il Genoa, argomenti che avrei sviscerato al ritorno con i compagni d’avventura del nostro scompartimento. Quello che non mancava erano i due punti in classifica destinati al vincitore e un ulteriore passo in avanti nel convincimento che seguire il Toro in trasferta, utilizzando un mezzo comodo, sicuro e socializzante come il treno speciale, poteva diventare un diversivo alle gite in montagna o alla domenica pomeriggio al cinema.
Se per me il treno era stato il mezzo che aveva sdoganato la possibilità di seguire il Toro in trasferta, negli anni a venire aveva, invece, rappresentato un’occasione di confronto e di divertimento più legate alla mia giovane età. Avrei cominciato a girare l’Italia senza papà al seguito e mi sarei fatto una cerchia di amicizie con le quali condividere il viaggio. L’accoppiata treno speciale più corteo sarebbe diventata inscindibile e avrebbe fatto parte del lato più divertente della trasferta. Si sarebbe atteso che tutti fossero scesi dai vagoni, poi, sotto la guida degli ultras, tamburi e bandiere in testa, si sarebbero raggiunti tutti gli stadi d’Italia in corteo, tra cori e slogan, dichiarando a tutti che era in arrivo lo squadrone granata.
Spesso capitavano momenti di ilarità inarrivabile, emblematico, al proposito, quanto accaduto sulle rive del lago di Como in una bella domenica di sole a metà dell’aprile 1976. Eravamo primi in classifica e cominciavamo davvero a pensare di poter vincere lo scudetto. La domenica precedente, in curva, i preparativi per la trasferta di Como fervevano decisamente più del consueto. Circolava, in particolare, un volantino che ho tenuto tra i miei ricordi. Il testo, redatto in granata, era letteralmente questo:

‘CON QUALCOSA DI GRANATA’

Domenica il Torino gioca a Como una partita che potrebbe essere decisiva per il campionato. Evidentemente non c’è bisogno di invitare i tifosi a seguire la squadra: Torino è tutta un fervore di iniziative che porteranno a Como migliaia e migliaia di appassionati.
Al di là dell’incitamento, al di là del tradizionale colore, è necessario che la squadra, anche visivamente, senta la presenza dei propri tifosi.
E allora vediamo di andare tutti a Como con “qualcosa di granata”, una sciarpa, un foulard, una cravatta, un fazzoletto, qualcosa da indossare o da sbandierare per fare immediatamente capire alla squadra, all’entrata in campo e durante la gara, che si trova fra amici, fra gli amici veri, quelli del “cuore granata”.

A cura del Centro Coordinamento
Tifosi Granata

Eravamo ottomila ad aver comprato il biglietto della partita, di più in quel vecchio velodromo con le curve rialzate per ospitare la pista delle biciclette non potevamo starci. Gran parte di noi granata cittadini aveva preso il treno speciale diretto da Torino a Como, che era stracolmo di gente e di tifo. All’arrivo in stazione avevo una gran voglia di affacciarmi tra i primi alla cittadina, per godermi l’arrivo e i cori dei nostri, così mi ero affrettato a scendere e a guadagnare l’uscita. Appena fuori dalla stazione avevo annusato l’aria del lago e mi ero guardato intorno. Dalla parte opposta alla piazzetta c’era un gruppetto di giovani, di fianco a una zona parcheggio ingombra di moto. Questi avevano indossato il casco e stavano cominciando ad attraversare la strada per venirci incontro. Era stato un attimo. Ci eravamo fermati su quegli scalini (ho un ricordo di una scala che scende dalla stazione alla piazza, ma oggi non ne sono più così sicuro) e li avevamo guardati. Quelli, una cinquantina, avevano continuato ad avanzare verso di noi, casco in testa e bastoni in mano, con intenzioni certamente poco amichevoli.
La reazione dei nostri era stata variegata. Qualcuno aveva continuato a scendere le scale, andandogli incontro, altri non li avevano neppure visti. Uno aveva gridato:
“Oh, chiamate gli Ultras!”
Io mi ero immobilizzato sulle scale, mentre altri cercavano di rientrare in stazione. Ma non era possibile retrocedere, perché da dentro, cantando a tutto spiano, sfociavano le prime avvisaglie del nostro gruppone. Chi provava a rientrare, veniva rimbalzato in avanti e quindi tutti quanti scendevamo e salivamo le scale, fino a trovarci sotto, poi in mezzo alla strada e poi nella piazzetta, in un vortice costante.
La stazione continuava a vomitare fuori granata vocianti e ignari e dall’interno dell’edificio rimbombava un coro:
“bombe, sangue saluto degli ultrà, saluto degli ultrà, saluto degli ultrà. Tifosi che ci picchiano non ce ne sono più, il sangue scorrerà nella fossa degli ultrà.
Ultras-Ultras-Ultras!”
A quel punto i lariani si erano bloccati, casco in testa e bastoni in mano. Fermi là, in mezzo alla piazza, penso si fossero guardati tra di loro, a giudicare da come la luce baluginava e si rifletteva sulle visiere dei caschi. Un attimo dopo erano in fuga per la discesa verso il lago, ben lontani dalle loro moto, abbandonate nel parcheggio. Per correre più rapidamente, nell’impaccio delle tenute da motociclisti, qualcuno aveva mollato i bastoni per terra. Alcuni dei nostri li avevano raccolti, altri avevano provato un inizio di inseguimento, impossibile vista la velocità di corsa dei locali.
Gli Ultras, inconsapevoli, erano usciti dalla stazione e ci erano rimasti davvero male.
“E che cazzo, potevate intrattenerli almeno un attimo, no!?” aveva detto sconfortato uno dei capi. “E adesso? Il divertimento è finito senza essere neanche cominciato…” se ne era uscito un altro, di quelli sempre in piedi in balconata.
Memorabile! Forse la prima e unica volta nella storia che un gruppo di tifosi “normali” mette in fuga la tifoseria ultras avversaria. Quanto valore si può attribuire alla suggestione e alla forza dei numeri!
Per la cronaca, quel Toro aveva vinto con il minimo scarto in un tripudio di sciarpe e bandiere ed aveva aggiunto un altro tassello prezioso alla corsa verso lo scudetto. Il solito Graziani aveva colpito di testa, finalizzando un calcio d’angolo del poeta del gol, i lariani non avevano nemmeno tentato di replicare e Pecci si era accontentato di tirare una legnata sulla traversa, per non mortificarli con uno 0-2 che ci sarebbe stato tutto.
Il ritorno con il treno speciale era stato divertente quanto l’andata. Ogni stazione sulla strada verso Torino aveva rappresentato una buona scusa per affacciarsi ai finestrini, che, in quei tempi in cui l’aria condizionata poteva forse solo esistere sui rapidi di prima classe, erano sempre spalancati e davano l’occasione di mostrare a tutti il nostro orgoglio. A Como avevo comprato una cartolina con lo sfondo del lago e avevo deciso che avrebbero dovuto firmarla tutte le ragazze del treno. Con quella scusa io e Ezio ci eravamo fatti tutti gli scompartimenti su e giù, alla ricerca di quelle più carine da agganciare, con la scusa della firma. Alla fine quasi non sapevo riconoscere il mio vagone.
Alcune scene erano un classico su quei convogli, ad esempio la questua che qualcuno rigorosamente organizzava per la domenica successiva. C’era sempre chi era un po’ spiazzato e girava per i vagoni chiedendo di fare colletta per qualcosa di imprecisato che sarebbe avvenuto di lì a poco. Le richieste erano a volte davvero impresentabili, ma su quei treni sembravamo proprio tutti parte della stessa famiglia e c’era sempre chi metteva la mano al portafogli, se non con piacere, almeno con comprensione e condivisione.
Le stazioni di passaggio, dove il convoglio rallentava senza quasi mai fermarsi, erano attese quasi con ansia per mostrare a tutta le gente chi eravamo e, caspita, se glielo dicevamo chi eravamo! Capitava talvolta il gobbo ignaro, con un cappellino a strisce, o paludato dietro ad abiti civili, che ti mostrava il dito medio, o ti urlava il nome della sua fetente squadra. E lì poteva succedere di tutto, o meglio di niente, perché gli insulti che si beccava erano talmente assortiti da sovrapporsi gli uni agli altri, senza la possibilità di coglierli, se non a sprazzi. C’era chi tirava giù la rumenta che aveva tra le mani, chi fingeva di scagliarsi di sotto aprendo la porta del vagone e mostrandosi sulla soglia, chi si limitava a sbandierare e cantare, infischiandosene. I meglio piazzati, in quei casi, erano quelli in coda al treno, perché potevano vedere la scena da lontano e avere quell’attimo di tempo per improvvisare una strategia, o gridare qualcosa di colorito e divertente, che poi veniva ripreso alla stazione successiva, ma con minore efficacia, da qualche imitatore. Come quando uno spigliato racconta una barzelletta che fa sbellicare dalle risate, ma la stessa barzelletta replicata da uno moscio risulta piatta e inefficace.

 

C’erano, invece, le volte che i treni sostavano in aperta campagna, oppure in stazioncine più o meno isolate sul passaggio. Quelle erano occasioni per scendere a sgranchirsi le gambe, irritando quasi sempre la pazienza di capotreno e controllori. Una volta due burloni erano scesi con un pallone e avevano improvvisato quattro passaggi tra loro. In un attimo quella campagna si era animata di una ventina di fratelli che volevano organizzare una partitella, tra le risate di tutti.
Ricordo una trasferta, nevicava, direi fosse a Cesena. Il treno si fermò in un luogo imprecisato dell’Emilia e quella volta fu una battaglia a palle di neve a scaricare quell’aggressività latente che avevamo dentro, quella voglia di battersi che la nostra squadra dimostrava sempre, per tradizione, sul campo e che noi avevamo introiettato dentro noi stessi.
Più raramente, capitava di incontrare analoghi convogli nella direzione opposta, carichi di supporters di altre squadre. Generalmente le Ferrovie tendevano a evitare possibili contatti, ma c’erano quelle situazioni obbligate, dovute magari a linee ferroviarie vecchie o a binario unico, per cui un treno doveva attendere in stazione che il binario si liberasse per ripartire. Poteva capitare che tu arrivassi, mentre gli “avversari” stavano per ripartire sul binario accanto al tuo. In quelle occasioni, se qualcuno si accorgeva della presenza di potenziali “nemici”, poteva succedere di tutto. Di solito partivano soltanto invettive, o lanci di quello che avevi a portata di mano. Ma se arrivo e partenza non erano ben sincronizzati, se solo un capostazione tardava a far ripartire il suo treno, allora poteva succedere che, riconosciuti gli avversari, qualcuno desideroso di mettere in mostra muscoli e tigna decidesse di scendere per scatenare un trambusto non da poco. C’era chi prendeva a pugni e manate il treno prima che ripartisse, tra gli insulti e gli improperi generali. Ma talvolta capitava, come capitò una volta con quelli del Bologna, che scendessero gli uni e gli altri. Lì allora la cosa si faceva pericolosa e l’unica possibilità che rimaneva al capostazione era quella di far ripartire lentamente un treno, in modo che quelli che erano scesi per fare a pugni, richiamati dagli amici che erano rimasti su, risalissero un poco alla volta per evitare di perderlo. Erano situazioni che, a ricordarle ora, paiono tragicomiche. In realtà erano molto pericolose e avrebbero rappresentato i prodromi delle problematiche che avrebbero portato alla fine di quelle trasferte dal sapore magico.
Cominciarono i giornali (non è sempre colpa della stampa?) con i loro titoli sulle tifoserie violente. Più tardi toccò alle televisioni, con i loro racconti del giorno dopo. Spesso quei treni venivano danneggiati strutturalmente, se non smontati pezzo per pezzo. Ci fu chi scardinò un lavandino o un cesso, per scagliarlo dal treno in corsa, di ritorno da una feroce trasferta a Bergamo. O chi fu schedato o daspato per il solo fatto di essere presente fisicamente su un treno di ritorno da Genova, dopo un meeting con i doriani.

Per non parlare di quello che facevano altre tifoserie, ben meno rispettose della nostra nei confronti del bene comune. In quello che non so, o che non ho visto, preferisco non addentrarmi, ma spesso capitava che su quei treni tentasse di salire chi non aveva fatto il biglietto. Finchè si trattava di una decina o poco più di soggetti si poteva anche soprassedere. Ma c’erano interi gruppi pseudo-ultras in giro per l’Italia che ritenevano fosse un diritto viaggiare senza pagare, facendo danni per il solo gusto di farli. Quei treni, in tali circostanze, non potevano avere l’atmosfera magica che avevo conosciuto fin dalle mie prime esperienze del 1974 a Novara e Genova.
Non riuscendo ad arrestare tali episodi fu logico che via via nessuno assumesse più la responsabilità di organizzare quei viaggi, che vennero definitivamente soppressi.
Resta il ricordo di anni meravigliosi, di aneddoti che ti ricompaiono nella mente quando ne riparli con chi c’era, di una gioventù che doveva soltanto incanalare nel modo giusto le tante e belle energie a disposizione. Tutte cose che hanno contribuito, e non poco, a farmi amare quel mondo, quel calcio, quella squadra e ciò che rappresentano ancora oggi per me quei tifosi.

 

 


Molinaro si prende la fascia: contro la Samp per la conferma

I Top e Flop della 3° giornata di serie A