Dal 13 maggio 1992 ad oggi sono trascorsi 8766 giorni, ventiquattro anni tondi tondi. Emiliano Mondonico, che cosa le torna in mente se pensa a quella stagione irripetibile?
“Calcisticamente parlando ricordo che le prestazioni europee erano più facili che in Italia”.

 

In che senso?
“Nel senso che era piacevole ascoltare i resoconti di Lido Vieri che andava ad analizzare le nostre avversarie, per studiarne gli aspetti tattici e poterne colpire in campo i limiti. Anche perché gli altri non cambiavano mai il proprio modo di giocare e dunque quando qualcosa non funzionava per noi era più agevole modificare assetto per metterli in difficoltà. Insomma, giocare in Europa era molto più semplice di quanto fosse affrontare il campionato italiano”.

 

Reykjavik, Boavista, Aek Atene e Copenaghen. La vostra fu una cavalcata strepitosa, impreziosita poi dalla perla incastonata contro il Real Madrid in semifinale. Che cosa ricorda della trasferta al Bernabeu?
“Prima della partita i tifosi madridisti presero a birrate il nostro pullman, spaccarono i vetri, ferirono il nostro preparatore atletico. Tutto ciò fece esplodere la nostra rabbia, perché se volete la guerra che guerra sia, e noi in quello non eravamo secondi a nessuno. Sì, quel Toro non si faceva intimorire da nessuno, ma trovava ancor più forza nelle difficoltà”.

 

Piegato anche il Real, ecco l’Ajax in finale.
“A Torino, al 90’ ci fu una grandissima palla-gol che poteva permetterci di vincerla. Ricordo Bresciani solo davanti al portiere, con Casagrande tutto libero in mezzo all’area; Giorgio, però, non lo servì, voleva fare gol per entrare nella storia. Peccato, fu una grande occasione che ci proibì di conquistare una partita che avremmo meritato di vincere”.

 

E la partita di ritorno?
“Ricordo uno stadio obsoleto, con tutta la gente pitturata di bianco e rosso, compresi i poliziotti. Ad un certo punto, dopo la sedia alzata, mi girai verso la tribuna non vedevo la gente ma soltanto fumo. Pensavo fosse nebbia, invece era tutt’altro; ma a noi non diede alla testa”.

 

E finì 0-0.
“Quella sera abbiamo dato il meglio di quanto potevamo dare. Alla fine siamo arrivati secondi e fummo trattati come se non contassimo nulla. Quello mi ferì e mi fece capire che piuttosto che perdere una finale è meglio uscire subito. Perché quando arrivi in finale conta soltanto chi vince: il resto è nulla”.

 

E’ vero che non ha nemmeno ritirato la medaglia?
“Già, non l’ho mai ritirata. Appena finita la partita sono rientrato negli spogliatoi, non ero felicissimo di aver perso senza perdere. La medaglia l’ho lasciata a loro, e penso che qualcuno dei nostri ce l’abbia ancora”.

 

Sono passati 24 anni, che cosa le resta in mente della sedia al cielo?
“Quella sera giocammo in uno stadio dove erano da poco iniziati i lavori di ristrutturazione ed a bordocampo, al posto della tradizionale panchina, c’erano le sedie. Strano, pensai: da noi doveva essere tutto perfetto, invece ad Amsterdam ci trovammo in una situazione paradossale. Ecco perché dico che se ci fosse stata la panchina non sarei riuscito ad alzarla…”

 

Quello è un gesto che rifarebbe?
“Quello è istinto allo stato puro. Se ci rifletto, non lo faccio. Ma se torno a quel momento, coinvolto e offeso com’ero, non potrei non rifarlo per far valere le mie ragioni di fronte all’ingiustizia”.

 

E la traversa di Sordo al novantesimo?
“La beffa. Perché oltre alla traversa ci fu quel rimbalzo: in area eravamo in cinque, eppure la palla rimbalzò, scavalcò tutti e se ne andò. Ci è andata male anche sotto quel punto di vista”.

 

Che cos’è per Mondonico oggi il coro “Torneremo ad Amsterdam”?
“E’ un canto liberatorio che fa capire le ambizioni della gente del Toro. Ecco perché è giusto che si canti: perché tutti devono capire in ogni momento quali sono le nostre aspettative”.

 

 


Empoli-Toro, l’ultima sconfitta casalinga dei toscani risale al 27 febbraio

La rassegna stampa del 13 maggio 2016