Dopo oltre trent’anni trascorsi a narrare le dirette del Toro via radio, o a discettare di tattica attraverso il mezzo televisivo, l’insistenza di alcuni amici mi ha convinto a mettere granata su bianco alcuni miei pensieri.
Sono consapevole di quanto la parola scritta sia più ostica di quella trasmessa per via orale e concordo con uno dei miei autori più amati, Luis Sepulveda, quando afferma che “ci sono storie che preferiscono essere raccontate al calore di un bicchiere di vino, che amano accomodarsi in mille modi nella bocca di chi racconta, finché non arriva il momento in cui loro solo loro decidono di diventare parole su carta”. Ho meditato a lungo prima di decidermi e penso sia giunto quel momento.
Queste storie non hanno alcuna pretesa stilistica, né sono figlie di qualche particolare tecnica di scrittura. Non sono state pensate per il web e, forse, vi saranno somministrate a puntate. Ma sono racconti che vengono direttamente dal cuore e dai ricordi e, come tali, pulsano, anche se possono risultare un po’ sbiaditi.
Ve li lascio come se fossero inseirit all’interno di un album di figurine, per aprirne una pagina a caso e puntare il dito. Poi, se siete della mia generazione, lasciatevi cullare dal ricordo; se siete giovani lasciatevi guidare ad immaginare quel mondo e quel Toro.
A tutti quelli che avranno la pazienza di leggerli chiedo di lasciare un commento a margine, meglio se critico, con la benevolenza che si offre ai neofiti verso le ingenuità e le inevitabili inesattezze dovute alle lacune della memoria. Sono certo che lo farete, perché, come dice il mio amico Silvio, “un fratello granata non ti lascia mai da solo”.

Fabrizio Bellone, il prof

 

Da un paio di mesi mi sento più stanco, ma forse sono solo stufo. Sono seduto qui, su questa panchina scrostata dei giardini della Cittadella, e provo a riposarmi un po’. Mi guardo attorno, tutto è tranquillo. Poco distante due bambini e una mamma, o forse una baby sitter. Chiudo gli occhi e respiro, in questa bella giornata di primavera.
“Gol, goool!!” l’urlo mi desta.
Cerco di capire dove e se qualcuno stia giocando al pallone, come facevo io tra le zolle erbose e l’asfalto del giardino. Non c’è nessuno, solo i due bimbetti, che avranno otto, forse dieci anni. Non più di venti in due, circa un terzo dei miei. Del pallone neanche l’ombra. Che fanno? Tartassano due macchinette elettroniche con le dita e si agitano.
“1-0 per l’Inter!”.
“Nooo, eri in fuorigioco”.
“Seee, domani!”.

La pace che regnava qui è scomparsa e la mamma, forse la baby sitter, messaggia senza curarsi di loro. Fosse per me mi alzerei e gli chiederei perché non si sono portati un pallone, perché non giocano per davvero. Oggi non c’è più un solo giardino, forse neppure un solo cortile, dove i bambini giochino a palla in città.
Ripenso alla pace di poco fa e sorrido. Mai stata pace qui, quand’ero bimbo io. C’erano almeno trequattro partite in contemporanea, a volte non bastava neppure portarsi il pallone da casa per garantirsi di giocare. C’era Ezio, che non si sapeva neppure se avesse i genitori. E Salvo, lui sì li aveva, ma era meridionale, dunque qualche mamma storceva il naso quando si avvicinava. E Beppe con le biglie, Rino con la cerbottana e tutti quelli che non ti ricordi il nome. Ma a calcio si giocava tutti insieme, in porta il più scarso e il più grasso davanti a fare ciccio-bombo-cannoniere. E c’era mio fratello, più grande di due anni, che mi difendeva sempre e mi faceva stare sicuro. Tranne quella volta che in montagna ero caduto dentro il campo da tennis e lui si vergognava di me. Ero seduto sulla balaustra due-tre metri sopra il campo a vedere un torneo, forse mi ero sporto troppo per seguire l’azione, avevo perso l’equilibrio ed ero volato di sotto. Lui aveva fatto finta di non conoscermi per la vergogna e un tizio, amico dei miei, mi aveva accompagnato a casa tutto acciaccato. Quante gliene avevano dette quel giorno, gli avevano fatto un mazzo così! Riguardo i bimbetti di oggi, uno è dell’Inter, l’altro, sicuro, di qualche strisciata. Ma ci andranno allo stadio? Se solo fosse presente, lo chiederei all’adulta che è con loro, ma so già le possibili risposte:

 

“E’ matto? Troppo pericoloso!”.
“Troppo caro, a proposito, quanto costa?” . Oppure anche:
“siamo andati una volta, ma non si capisce nulla, neppure quando segnano, perché non c’è il replay”.
O, ancora:
“me le vedo tutte in tv, troppo figo con il telecronista tifoso”.

 

Ci ripenso, ma non riesco a comprendere. Giocano per finta e guardano partite finte in tv. Noi invece giocavamo per davvero, dalle tre alle sei. Partite da venti gol minimo, interrotte da qualche sorsata al toret, un giro in bici, o brevi litigate per le figurine che qualcuno cercava sempre di fregarti, se le lasciavi incustodite di fianco al maglione che serviva come palo della porta. C’era chi giocava con la camicia, ma quelli si fermavano per poco, magari erano passati per caso e frignavano se mammà non li faceva stare qualche minuto. Qualcuno aveva la maglia della squadra, ma ne giravano poche di quelle vere. In tanti mostravamo il colore della squadra per cui tifavamo. E qui quelli delle strisciate pativano, perché o avevano la maglia, quella vera, oppure millantavano un tifo senza riuscire a esibire il colore in modo credibile. Noi del Toro, invece, avevamo tutti qualcosa di granata. Beh, a volte era solo un bordò, o un rosso acceso, o un mezzo porpora, dipendeva anche molto dal bucato di casa. E dietro, il sette di Meroni, che poi sarebbe andato bene anche per Sala, o l’undici di Pupi.  Avevi dieci anni, ma ti sentivi il padrone del mondo. Per me era il colore più bello e avevo cominciato ad amarlo presto. I primi giorni di scuola elementare (perché all’asilo non c’ero mica andato io, o forse sì, ma mi ricordo appena) tornavo a casa e chiedevo:
“papà, di che squadra siamo noi?”.
E lui, da persona intelligente quale era:
“io sono del Toro”.
“E zio?”.
“Del Toro”.
“Anche le femmine hanno una squadra? Che mi dici di mamma?”.
“Chiedile tu”.
Il giorno dopo arrivavi a casa e facevi:
“Albi è del Milan, posso fare il tifo per il Milan?”.
Ma papà, da persona intelligente, non abboccava.
“Puoi fare come vuoi”.
Ma tu tornavi alla carica il giorno dopo e, più convinto di prima, facevi:
“sai che ti dico papi, quasi quasi tengo per l’Inter, come Marco”.
Lui, che doveva avere capito, aveva sorriso. Ma era andato dal suo fratello maggiore e avevano parlato.
Fatto sta che passa qualche giorno, poi zio Mario viene e fa:
“domani ti va di venire alla partita?”.
“A vedere cosa?”.
“Ma il Toro, no? Dai che ti porto con me!”.

 

Era fatta. Avrei capito anch’io per chi tenere e non avrei mai cambiato idea. Quella domenica la maglietta non ce l’avevo ancora. Mio fratello sì, ma lui era sempre stato del Toro, io non lo sapevo mica ancora di chi ero veramente. Si giocava al Comunale ed eravamo arrivati con il tram. Qui è d’obbligo aprire una parentesi sulle abitudini di mio zio Mario. Nonostante avesse superato i cinquanta viveva ancora con la madre. Doveva essere uno scapolone piuttosto interessante: lavoro in proprio, vestiti giovanili e una Lancia coupè sportiva, dove era quasi impossibile sedersi dietro. Io avrei voluto andarci con quella allo stadio, ma mamma l’aveva proibito, per via di una frase storica che zio le aveva pronunciato l’unica volta che lei ci era salita. Lui aveva una guida piuttosto sportiva, direi adeguata all’auto che conduceva, e mamma evidentemente la pativa più di altre. Così, alla prima curva di quelle che sarebbero piaciute a me, lei aveva cercato sicurezza aggrappandosi alla maniglia in alto a destra. Mario l’aveva guardata in modo rapido e severo, girando solo gli occhi verso destra, poi l’aveva fulminata con quella frase:
“Fame mac ‘l piasì d’nen tente”.

 

Segno che in quella macchina i suoi ospiti potevano fare e dire quello che volevano, ma mai temere per la propria incolumità. Indipendentemente dalla velocità o dall’approccio di guida potevi mangiare, bere, magari ridere, ruttare, chissà forse anche fare arie da dietro, o divertirti con la ragazza giusta, ma assolutamente non potevi tenerti aggrappato senza mettere in dubbio le qualità di guida del proprietario. Zio aveva i biglietti dei Distinti, più caro, ma più tranquillo che in curva, dove andava di solito, giusto in onore della “prima” del nipotino. La partita, Torino–Cagliari, era stata scelta per due motivi: non presentava problemi di sicurezza ed era l’occasione, per lo zio, di vedere dal vivo Gigi Riva, il più forte attaccante italiano degli anni ’60, che quell’anno, allenato da Scopigno, avrebbe segnato 18 reti, vinto il suo primo titolo di capocannoniere e portato il Cagliari a uno storico sesto posto in serie A. Prima di entrare avevo comprato la bandiera, bella, granata, con gli scudetti vinti in bella vista. Della partita in sé ricordo poco, anche perché non riuscivo a vedere un tubo. Stavano tutti in piedi e io ero troppo piccino per competere con quello davanti. Allora zio mi aveva preso sulle spalle, ma la gente dietro si lamentava, anche perché sventolavo con foga la mia bandiera. Nel secondo tempo ci eravamo spostati in basso. C’era una riga di gente appiccicata alla recinzione, ma  zio, che era alto, riusciva a vedere anche dalla seconda fila e io potevo finalmente stare sulle spalle senza che nessuno si lamentasse. Da quella posizione, fronte a poche spanne dalle inferriate, annusavo l’odore dell’erba e ho nitido il ricordo dei polpacci pelosi dei giocatori che venivano a raccogliere la palla per il fallo laterale. Gli vedevi anche bene le scarpe bullonate, quelle che oggi chiamano “scarpini”, assurdo per gente con il 44 di piedi. Avessero mai detto a Bolchi o a Rosato “legati bene gli scarpini” mi sa che sarebbe volata qualche sberla. Mi giravo spesso a contare le altre bandiere, che garrivano al vento,
numerose, soprattutto nella curva alla mia destra.

 

“Sventola quella bandiera!” tuonava lo zio, che pensava mi annoiassi. Ma io non ero per niente annoiato. Se della partita capivo poco, trovavo interessante guardare la gente attorno, che parlava rigorosamente in piemontese. Io lo capivo un po’, anche se in casa non si poteva parlarlo, perché papà temeva che imparassimo male l’italiano. C’era uno, che sembrava angosciato, che ripeteva sempre “Ah, adess ‘n ficu ‘na gria!” che credo significasse il suo timore di subire una rete. Facevo mille domande a zio, che dopo un po’ aveva smesso di rispondermi e gridava qualcosa all’arbitro, o incitava quelli che chiamava ragazzi e che credo fossero i nostri.

Ogni tanto mi confondevo e lo chiamavo “papà, papà, anzi no, zio”.
E lui: “ciamme cuma t vole ti, basta ca vinciuma”
o qualcosa del genere, mi scuso per come scrivo, in effetti aveva ragione papà a darmi del “napuli”. E poi tutti cantavano, gridavano e si abbracciavano quando le cose andavano bene. E dentro mi era entrato quell’urlo, ripetuto, che sentivo mio:

“Toro – Toro – Toro”.
E poi ancora:
“Toro –Toro –Toro”.
Ad un certo punto mi sento spingere. Ma che cosa vogliono? Lasciatemi gridare! E, allora, ancora più forte:
“Toro – Toro – Toro!”.

 

Poi sento un appello lontano:
“Signore, signore!”.
Non capisco.
“Signore, scusi, ha bisogno?”.
Alzo il capo di scatto. Guardo. Davanti ho una baby sitter ventenne. Poco distante due bimbetti che smanettano su macchinette elettroniche. Sono su una panchina scrostata dei giardini della Cittadella.
“Mi scusi signore, ha bisogno? Temevo si sentisse male, era tutto agitato!”.
Realizzo in un attimo. Mi ero addormentato? Che figura!! E adesso che le dico?
La guardo. Poi guardo i bimbetti. Ora so che cosa dire:
“scusi lei, niente, ma…è che io sono del TORO!”.


Toro, doppia seduta di allenamento a Chatillon

Assalto ad Hernandez, ora in cima alla lista: svolta attesa per domani