Stava a 175 chilometri da Torino, tanti quante le presenze di Luca Bucci in maglia granata. Non era facile essere tifosi del Toro fuori dal Piemonte, ma quella distanza dall’epicentro del suo mondo non era incolmabile. A essere lontani erano i picciotti di Agrigento, o gli scugnizzi di Benevento, loro sì che erano costretti a fare i salti mortali per vedere giocare i ragazzi in casa e dovevano accontentarsi, perlopiù, di attenderli in una delle sempre più rare trasferte al sud previste dal calendario.
Era granata da sempre, per tradizione di famiglia, ma aveva cominciato a frequentare lo stadio solo intorno ai vent’anni. Prima non poteva, nuotava, 100 e 200 rana a livello agonistico, che lo impegnavano in gara praticamente ogni fine settimana. A sedici anni, non riuscendo a conseguire i risultati attesi, era passato alla pallanuoto, senza però mai farcela ad entrare nel giro della prima squadra. Così quattro anni più tardi si ritrovava una bella statura, due spalle larghe su pettorali ben scolpiti e, finalmente, la domenica libera da impegni.
Aveva cominciato a seguire il padre tutte le volte che decideva di andare a Torino per la partita, aggregandosi a uno dei tanti club del ponente ligure che organizzavano il viaggio. Con il tempo il babbo non era stato bene di salute e il medico gli aveva vietato quelle trasferte al seguito della squadra del cuore.
Aveva continuato ad andare da solo, appena poteva, ma con l’avvento delle televisioni a pagamento i club facevano sempre più fatica a riempire un pullman, pure consorziandosi tra loro. Gli amici del padre si facevano vecchi e preferivano la comodità del bar, mentre quelli della sua età che tifavano Toro erano sempre più rari.
Lui non aveva smesso di seguire il suo Toro, si era semplicemente adeguato agli altri. Vedere la partita in compagnia, commentare le azioni con i compagni di tifo, trepidare e gioire, o soffrire insieme faceva parte del suo mondo e non ci avrebbe rinunciato.
Non aveva un club fisso di riferimento. Quando il Toro giocava gli piaceva vagabondare lungo la costa, di solito tra Sanremo e Savona, fermandosi nei bar dove erano maggiormente attivi i club della zona. Se gli andava di farsi ventisette chilometri, il numero di maglia di Quagliarella, lo trovavi ad Alassio. Se decideva di farne nove, il numero di campionati Primavera vinti dai torelli, si spostava a Ceriale. Se voleva onorare i cinque scudetti del Grande Torino, in cinquemila metri planava su Pietra Ligure. In ognuno di questi posti conosceva tutti e tutti conoscevano lui. Dopo la morte del padre, la madre se ne era andata quando era ancora piccolo, era andato a vivere da solo. Aveva avuto le sue storie, ma non si era mai sposato e non aveva neppure preso in considerazione l’ipotesi di convivere con una donna. Lo consideravano un solitario che amava stare in compagnia. Un uomo solo, con una grande passione per i numeri, una passione che sfiorava la manìa e che si trasformava in una croce da portare, o una persecuzione da infliggere. Aveva cominciato presto con quel suo strano gioco. Fin dai tempi del liceo aveva iniziato a torturare i compagni di classe con una domanda secca, che non ammetteva repliche, né, tantomeno, chiarimenti. Aveva l’abitudine di avvicinare il prescelto una sola volta, per porgli quella domanda secca:
“Conti?”
Non tutti capivano subito che cosa volesse da loro. E, spesso, era lui stesso a porsi il problema che gli si desse il giusto rilievo. Quindi, talvolta, si avvicinava quasi dovesse chiedere il permesso e, ottenuto quell’attimo di attenzione, chiedeva:
“Scusa, posso farti una domanda?”.
La risposta era generalmente interlocutoria:
“Prego” oppure “dimmi!” o anche “fai pure”.
“È per una specie di test che sto facendo”.
“Vai”.
A quel punto lui sparava: ”conti?”.
“Che?” era l’approccio più comune. Che poteva significare:
“Che vuoi?” oppure anche “Che cosa dici?” o soltanto ”Non ho mica ben capito”.
Lui, impassibile, poteva al massimo chiarire il concetto con l’aggiunta di due lettere e una virgola: ”tu, conti?”.
Se non lo mandavano a fare in culo, la risposta più frequente era un:
“sì, certo che conto”.
Seguiva la sua richiesta numero due: “Quanto?”.
A quel punto l’interlocutore, che non ne poteva già più, poteva rispondere in vari modi. La prima risposta in assoluto che aveva avuto era stata:
“Uno, due, tre”.
Al che aveva ritenuto concluso il test, congedando il candidato:
“Non valido”.
Dopo di che se ne andava. E pensava: tre, come i gol di Pulici in Toro-Fiorentina 4-3 del 1976. Mollava lì il malcapitato e ne agganciava un altro:
“Conti?”.
“Sì”.
“Quanto?”.
“Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici. Ti basta?”.
“Sì, certo. Grazie. Non valido” e se ne andava, pensando al numero di maglia di Sattolo, di Cazzaniga, di Pigino, di Copparoni e di tutti i portieri di riserva del Toro che riusciva a ricordare. Più avanti negli anni l’avrebbe associato al numero di maglia che era stato ritirato in onore della curva Maratona, il dodicesimo uomo in campo.
In una mattinata di scuola si faceva cinque o sei compagni, non di più, perché questi poi si passavano la voce e gli altri lo prendevano in giro. Già così erano abbastanza per farlo sembrare ben strambo, mezzo matto o con qualche complesso anche serio. Già dal secondo giorno erano sempre meno quelli che rispondevano e gli era parso che la maggior parte dei compagni cercasse di evitarlo, mentre altri si avvicinavano a gruppetti per canzonarlo.
Così aveva rivolto la sua attenzione ai ragazzi delle altre classi, finchè aveva deciso di non insistere con il suo test a scuola, dove aveva annotato una ventina di risposte soltanto, la più stimolante delle quali era stata fornita da un bellimbusto con gli occhiali di terza C. La scena era stata la solita: ”Conti?”.
“Sì”.
“Quanto?”
“Fino a 480”.
“Non valido” e se ne era andato pensando ai 480 milioni di lirette che Orfeo Pianelli aveva scucito per sottrarre Claudio Sala al Napoli di Ferlaino.
Quei pensieri, la tripletta di Pulici, i portieri in seconda del Toro o gli esborsi di Pianelli potevano accompagnarlo anche per tutta la giornata.
Rivedeva come in una sorta di highlights dei giorni d’oggi, da ogni angolazione, quei tre gol, assaporando il gusto di quella giocata da fuori area di sinistro sotto l’incrocio, di quel colpo di testa preciso da sotto porta, di quel contropiede a velocità pazzesca concluso in rete che non aveva ammesso repliche. Poteva ricostruire fin nei dettagli le carriere di quei portieri, nati per rimanere nell’ombra dei titolari e i momenti esatti della loro storia nei quali avevano avuto l’occasione di vivere la ribalta in prima persona e se la avevano sfruttata al meglio, o se la avevano sprecata, per insipienza o per destino. Per quanto riguardava Claudio Sala, poi, non se ne faceva una ragione. Il Toro aveva avuto nei suoi ranghi per undici anni il più forte uomo assist degli anni settanta, il più ingegnoso creatore di dribbling del suo periodo, il più talentuoso centrocampista d’attacco che ricordasse di aver visto giocare dal vivo in maglia granata, ma le presenze in Nazionale del suo idolo erano di gran lunga inferiori a quelle di quell’altro, che chiamavano Causio, per lui niente altro che un gobbo sopravvalutato e pure a quelle di quel folletto di Bruno Conti.
Si era diplomato, era stato all’università, aveva preso una laurea e, ora, aveva un lavoro. Era cresciuto, prima ragazzo, poi diventato adulto, con normali rapporti di relazione con il suo prossimo. Quel gioco, però, era rimasto dentro di lui come un tarlo, a roderlo di dentro e a spingerlo a riproporlo appena possibile, come un fil rouge che attraversava tutta la sua vita. Lo caratterizzava come una personale stranezza, che portava a dubitare delle sue facoltà mentali quelli a cui lo somministrava con puntiglio.
Con l’andare degli anni le risposte si erano modificate di poco. C’era sempre chi dichiarava di non contare e chi lo mandava a stendere. Tra quelli che sceglievano risposte più creative, permanevano quelli che rispondevano con un nome di battesimo. Ma se alla domanda “Conti?” nei primi anni settanta la risposta poteva essere “Paolo”, rammentando il portiere della Roma, quel nome diventava “Bruno” negli anni ottanta, per passare negli ultimi tempi a “Carlo”, per i malati di quiz televisivi. In quelle occasioni il gioco era già finito, senza neppure essere cominciato. In tutti quei casi, il test continuava a dare il medesimo risultato: non valido.
Era in grado di accoppiare qualunque cifra ad un qualsiasi momento della storia del Toro. Conosceva, ovviamente, tutti i numeri di maglia dei suoi beniamini, ma anche il numero di partite giocate in serie A o B da ognuno di loro, le reti segnate, i punti collezionati dalla squadra nei vari campionati e via dicendo.
Aveva pensato spesso al numero che avrebbe pronunciato, se solo fosse toccato a lui stesso rispondere al test. Aveva scelto il 1906, l’anno di fondazione della sua gloriosa società, ma sarebbero andati bene ugualmente il 65377, record di presenti sugli spalti al Delle Alpi per la finale Uefa con l’Ajax, oppure 40513, il numero medio degli spettatori al Comunale nella stagione 1976/77. Anche in tutti questi casi il responso non sarebbe mutato: non valido.
Non c’era mai una risposta che gli desse vera soddisfazione.
Quale sarebbe stata una risposta a cui poter assegnare un “valido!”?
È chiaro che era esatto rispondere affermativamente alla domanda iniziale. Ma una volta giunti al secondo quesito, beh, lì la risposta giusta non arrivava mai.
“Quanto?”.
Quanto uno può contare?
Aveva atteso per anni che qualcuno gli dicesse “tanto”, inteso come “conto tanto, come persona”. Avrebbe significato poter trovare un uomo o una donna che gli dimostravano dei valori non puramente numerici, ma qualitativi.
“Conto tanto, perché sono un essere umano con dei sentimenti”.
Da un incontro di quel genere sarebbe potuta scattare una molla nella sua vita così piatta. Quel
“tanto” avrebbe potuto rappresentare comunione, o anche soltanto vicinanza d’intenti. Partecipazione. Condivisione. Anche solo rispetto.
E, dopo, quel qualcuno avrebbe potuto proseguire dicendo “conto tanto per te e te lo voglio dimostrare”. Oppure anche un “conta pure tanto anche tu. Su di me”.
Avrebbe significato fiducia. Un domani magari neppure troppo remoto avrebbe potuto significare amore. Se fosse stata una ragazza a dirglielo, o, passando gli anni, una donna, avrebbe di certo sentito un brivido di freddo correre lungo la schiena. Non riusciva neppure ad immaginarselo.
No, amore forse no. Sarebbe stato fin troppo.
“Certo, sarebbe bello” fantasticava “ ma per quale motivo qualcuna dovrebbe innamorarsi di me?”.
“Mi fa quasi paura pensarlo” concludeva.
Si torturava, immerso tra questi pensieri, mentre passeggiava sulla riva del mare, sulla battigia di una spiaggia della Liguria, di quelle che hanno la ferrovia che corre alle spalle, quasi volesse ristorare lo sguardo dei passeggeri in attesa di raggiungere la meta della vacanza estiva. I piedi nudi, l’acqua già calda che arrivava a lambirgli le caviglie. Aveva sentito lo sferragliare del treno in lontananza. Lentamente, si era girato. Ora i vagoni gli sfrecciavano davanti. Meccanicamente li aveva contati. Erano sette. Erano solo sette. Come gli scudetti del suo Toro. Decisamente pochi, troppi pochi rispetto a quelli che avrebbe meritato. Non valido.