Da quel giorno Meroni diventa un mito, ricordato con quei baffetti, quello sguardo sornione e quella maglia granata. E i miti, si sa, non muoiono mai
Quarantotto anni. Tanto è passato da quando quella maledetta sera d’autunno, in cui le ali della “farfalla granata” smisero di battere, per sempre.
Personaggio estroso prima che ottimo calciatore, Gigi arrivò a Torino appena ventunenne dopo un biennio al Como ed uno a Genova, sponda rossoblù dove si era messo in luce per il suo dribbling ubriacante e per quel modo scanzonato di vivere il calcio, sdrammatizzandone gli aspetti troppo esasperati. Ma a Genova Meroni conobbe anche Cristiana, la donna con cui visse un amore da film, totale e totalizzante, ma anche la donna che gli resterà accanto fino a quel maledetto 15 ottobre 1967.
Il Toro al pomeriggio aveva passeggiato sulla Sampdoria, con un 4-2 che non lasciava spazio a discussioni. Nestor Combin autore di una tripletta e Gigi protagonista assoluto, quasi avesse presagito che si trattava della sua ultima apparizione davanti a quella gente granata, che fin da subito lo aveva accolto come un figlio. E proprio quella vittoria, paradossalmente, costò la vita a Meroni; la sera infatti i giocatori ottennero da Fabbri il permesso di non rimanere in ritiro a Villa Sassi, consueta sede dei raduni granata, ma di poter trascorrere le trentasei ore libere con le rispettive famiglie. Poi la tragedia: Gigi ed il compagno Fabrizio Poletti che attraversano corso Re Umberto, Poletti che fa quel mezzo passo indietro che gli salva la vita; Meroni che ne compie uno avanti e viene investito. La situazione appare subito disperata, la folle corsa in ambulanza al vicino ospedale Mauriziano, l’intervento chirurgico. Ma è tutto inutile, pochi minuti e il cuore di Gigi cessa di battere, per sempre.
Da quel momento Meroni diventa un mito, ricordato da sempre e per sempre con quei baffetti quasi disegnati, quello sguardo sornione e quella maglia granata addosso. Perchè i miti, si sa, non muoiono mai.