È un giorno qualunque. Cammino per quel prato incolto, calpesto quelle zolle malferme. Mi giro e mi rigiro a guardare i balconi degli edifici attorno, là dove spunta un drappo granata e pure lì, dove le serrande sono abbassate, per non vedere. Quaggiù c’era il capannone dove ci si allenava quando pioveva, giocando anche a pallamano, poco oltre il campo degli allievi. Respiro quell’aria di casa e ripenso a tutto. Sento ancora quella voce provenire dalla vecchia tribuna in legno, già ostaggio delle impalcature: “Ci perdoni presidente Pianelli! Ci perdoni”. Ricordo gli eroi del ’76 esibirsi a distanza di anni in un giorno di festa contro una prima squadra più giovane. Capelli radi e accenno di pancette contro fisico prestante, matecnica più approssimativa. Anonimo, nella tribuna, c’è anche un artefice essenziale di quel sogno, il presidente del tempo, cacciato a suon di fischi, improperi e contestazioni solo qualche anno dopo l’impresa. È capitato anche questo e capiterà ancora. Si leva un applauso dalla folla, lui è lì e si alza, schivo. Poi resta inghiottito dalla gente, la stessa che lo aveva ripudiato. “Ci perdoni presidente Pianelli! Ci perdoni” ripete l’uomo. Ora è un grido, che taglia. Ci perdoni per gli insulti gratuiti, per non aver capito, per aver dimenticato i sentimenti, per non aver seguito i suggerimenti dei più saggi. Ci perdoni, perché non abbiamo né memoria, né rispetto. Quel tifoso ha gli occhi lucidi e io con lui. Siamo in molti ad avere le lacrime agli occhi. Non è la prima volta. Questo è un tempio dove la commozione è sempre stata di casa, lo era anche quel giorno di pioggia dell’ultimo saluto a Giorgio, il capitano che mi ha insegnato a non mollare mai.
In quegli anni per me c’era lo stadio e c’era la curva. Ma non avrebbero avuto il medesimo significato, se non fosse esistito, prima, quel campo. Questo è il posto dove mi ha portato papà, mostrandomi il gradino dove veniva con i suoi fratelli a tifare i Grandi. Lì ho continuato a fiondarmi ogni volta che avevo un buco, tra l’università e il lavoro, insieme a chi sceglieva quel luogo per tagliare da scuola, invece di andare con la massa a giocare a biliardo all’Impera. Qui ho conosciuto vecchi che mi hanno raccomandato umiltà e pazienza, insegnandomi il tifo vero. Quel campo è stato calpestato da protagonisti talvolta tecnicamente non eccelsi, ma di umanità e personalità tali, da saper parlare agli ultras e da farsi ascoltare e rispettare da loro. Qui ho gioito per lo scudetto insieme a mio padre e sono tornato con lui quando non ha potuto più andare alla partita. Ho visto i miei idoli affrontare squadre di giovani che non ci stavano a perdere e ho ascoltato anziani profetizzare carriere luminose a ragazzi di belle speranze, che si chiamassero Cravero o Pulici, ma pure Bertoneri o Ermini, più attenti all’aspetto umano e caratteriale che a quello squisitamente tecnico. Ho atteso i giocatori al ritorno dalle partite lì, dove avevano parcheggiato le loro auto, tra un incoraggiamento e una promessa di un gol la domenica successiva. Questo è un posto che i gobbi non hanno mai conosciuto e, se avessero voluto entrarci, avrebbero dovuto pulirsi le scarpe. Quel campo c’è ancora e tornerà a vivere, ma quel calcio è morto e sepolto. Una volta ero il gagno che andava guidato. Oggi sono il vecchio a cui chiedere un ricordo. Ci tornerò? Tornerò di nuovo, se questo posto saprà farmi piangere e ridere, allo stesso modo.