Quando ci misi piede dentro per la prima volta, facevo seconda elementare. Non arrivavo da una famiglia particolarmente granata, quindi il mio ingresso nel Tempio sarebbe diventato profondamente consapevole solo molti anni dopo. Ricordo però l’emozione di entrare in un luogo sacro per i più grandi di me. In piedi sulle gradinate, aspettavo con Fabio che chiamassero i nostro nomi dall’altoparlante. Impacciato ed emozionato, non ebbi la prontezza di imitare il boato dello stadio quando venne scandito il mio. Fabio lo fece, e lo invidiai per la prontezza, oserei dire il coraggio, ma soprattutto perché quel suo “olè” fatto con la voce rauca rivelava una frequentazione con le partite dal vivo del Toro che io non avevo ancora. Per tutto quello che riguardava la nostra squadra, Fabio era il mio punto di riferimento. Se ero del Toro era anche per merito suo, in fondo.

 

Calpestammo l’erba del Prato, indossammo le magliette granata che ci diedero i grandi in mezzo al campo e andammo a farci fotografare in gruppo. Rivista anni dopo, quella foto mi faceva un’impressione strana, come se lo stadio lì attorno già stesse tremando per un qualche piano infame del destino. All’epoca, era il 1988, nessuno poteva sospettare nulla. Feci un anno di disonorevole carriera in granata scendendo per lo più nel campo di fianco a quello principale, e ricordo poco, se non tre episodi rivelatori: un giorno a inizio allenamento venne a portarci i palloni per giocare Luis Muller, e la cosa ci entusiasmò tantissimo. Ma era normale. Il Filadelfia era soprattutto questo: crescere insieme ai più grandi, camminare sulla strada tracciata da loro, muovere i passi sulle orme della prima squadra che si allenava a pochi metri da noi. Il Filadelfia era tutta quella gente che guardava persino gli allenamenti dei pulcini, e incitava per lo più in piemontese noi piccoli granata. L’altro episodio l’ho raccontato mille volte: prima del derby di ritorno noi piccoli scendiamo sul campo del Comunale per fare alcuni palleggi e un giro di campo. La curva di quelli là ci fischia, ci insulta. Io giuro a me stesso che non mi sarei mai fatto fregare da quei colori così tristi.

 

Il mio saluto al Fila è stato pochi mesi dopo, al termine di una partitella che ricordo come un’angoscia: pioveva a dirotto, e io credo di avere giocato particolarmente male, perché finii la partita in porta, a farmi bagnare in silenzio e immobile dalla cascata che scendeva dal cielo. Non fui l’unico ad abbandonare il Fila, di lì a poco anche la prima squadra avrebbe salutato il Tempio e si sarebbe spostata a Orbassano.

 

Quando lo buttarono giù avevo 16 anni, e credetti come tanti alle promesse che ci fecero in quei giorni. Quando, diventando adulto, ci passavo accanto non potevo credere a quello che vedevo. Quando le rovine mi apparivano all’orizzonte, quando mi avvicinavo ai suoi resti che sussurravano ancora storia, mi stupivo ogni volta di quanto poco fosse rimasto. Non è possibile, dicevo. E pensavo alla gradinata su cui aspettai che l’altoparlante mi chiamasse.

 

Quando provo a spiegare che cosa è il Toro a qualche pagano, tifoso di altre squadre, parto quasi sempre dai suoi luoghi. Il Toro è innanzitutto popolo, e un popolo è tale se ha storia, tradizione, eroi e santi comuni, ma anche e soprattutto luoghi in cui riconoscersi con uno sguardo muto. Luoghi in cui andare dopo una notizia triste, o una gioia grande. Superga, il Filadelfia, sono soprattutto queste cose qua. Luoghi di appartenenza, fiotti continui di sangue nuovo con cui far tornare rossa la nostra pelle, sorgenti inesauribili di fratellanza, moniti al mondo e a noi stessi, promemoria viventi che gridano noi non siamo come gli altri, e non lo saremo mai. L’amore di certi tifosi con cui il Fila è stato difeso, curato, ricordato e tenuto in vita dal 1998 a oggi è lì a dirci proprio questo: potete abbattere i muri, sbriciolare le pietre, bruciare l’erba, ma noi saremo sempre qua a urlare che il Toro non muore mai. L’ultima volta che sono stato al Fila era il 20 maggio del 2012. Dopo la vittoria con il Modena che ci ha riportati in serie A, ci siamo trovati tutti lì, esaltati e commossi. Pioveva, per fortuna, e c’erano i fumogeni dei ragazzi della curva, quindi si poteva piangere senza essere notati. La vita nel frattempo mi aveva già portato lontano da Torino e con un lavoro con orari spesso inconciliabili con il Toro visto dal vivo.

 

Per questo oggi non ci sarò. Non fisicamente. Quando qualche settimana fa è uscita la notizia che era tutto vero, che questa volta si parte, il Fila si ricostruisce, mi sono commosso. Ho pensato ai miei sette anni, a quella gradinata, a Fabio, all’altoparlante, ho pensato persino a Muller. Ho pensato che se uno dei luoghi che fanno un popolo torna a vivere, quel popolo non potrà che essere più forte, più consapevole, più unito. E ho pensato che di quel popolo ormai fanno parte davvero, e non solo per contratto, anche i ragazzi che oggi indossano quella maglia in prima squadra, la stessa che diedero a me su quel Campo, 27 anni fa. E che lo saranno sempre di più. Oggi, quando poseranno la prima pietra, io ci sarò. E con me le migliaia di bambini, ragazzi e uomini che quella maglia l’hanno indossata – anche solo per un momento – amata e tifata. Piangeremo, fratelli, e sarà come imboccare la strada che riporta a casa dopo anni di esilio. La casa è là in fondo. Finalmente. Di nuovo. Per sempre.

 


L’emergenza sceglie per Ventura. E Acquah fa gli straordinari

La rassegna stampa del 17 ottobre 2015