È stata una giornata lunga e zeppa di avvenimenti. Ne sono capitate parecchie. Cerchi di rimettere in ordine i pensieri. Innanzitutto c’è il fatto che hai perso la ragazza. Sai dove l’hai persa, quello che ti turba è che poi l’hai cercata e non l’hai più trovata. Hai chiesto a tutti quelli che hai incontrato. Sei ritornato sui luoghi che avete percorso assieme. Sei passato dalla stazione ferroviaria, senza successo. Ora sei a casa. Fosse stato anche solo quindici o venti anni fa non ci sarebbero stati problemi, l’avresti cercata al cellulare, le avresti inviato un whatsapp. Se l’avesse avuto spento, beh, finita, fatti suoi. Ma nel 1983 i telefoni portatili non esistono ancora. Altro che smartphone o tablet, non esistono neppure quelle pseudo cabine telefoniche portatili che erano i primi telefoni mobili. Se lei fosse di Torino potresti cercarla a casa. Magari ci è tornata da sola e potresti trovarla sul fisso. O andare a suonare al citofono. Ma Giulia è di Milano. E che fai? Telefoni là e se risponde la madre che le dici? “Buonasera c’è Giulia?”. “No Beppe, ma…non è con te?”.

 

Non esiste. Si preoccuperebbe. E se fosse a casa ma non volesse risponderti? Probabile. Intavolare una conversazione dall’ingresso di casa tua, con tua sorella in piena pubertà che ti si piazza apposta davanti per metterti in imbarazzo e tua madre che origlia dalla cucina? No, grazie. Non puoi telefonare. Non ora. Non stasera. Magari domani. Già, ma chiamare domani significa mostrare indifferenza. La perderesti per sempre. Che situazione! Che fastidio. Che fare? Difficile prendere una decisione, ancor più al termine di una giornata così intensa. Ma proprio oggi doveva venire da Milano? Proprio oggi doveva metterti alla prova? Hai atteso tanto e proprio oggi doveva essere il gran giorno?
Com’è che l’avevi conosciuta? Ah sì, d’estate. L’avevi conquistata con le tue battute. Eri brillante, un vero capogita. Le avevi dimostrato che non si trattava soltanto di un flirt estivo. Lei non si fidava, ma eri andato a trovarla spesso e avevi aperto una breccia in quel cuore. Era diventata una cosa seria e non ti pareva vero. Lei alta, slanciata, mora. Forse un po’ magra. Bella. Poi, tu ti eri seduto. Il maglioncino da tennis che ti aveva regalato non lo avevi usato abbastanza. E avevi perso subito il suo braccialetto d’argento, era troppo largo. Tutti i suoi amici facevano il tifo per te e questo non te lo poteva davvero perdonare. Così era finita, ti aveva lasciato. Destino? Macchè, c’eri rimasto male e ti eri detto “bene, se ci trovi anche dei fiori in questa storia sono tuoi”. Non potevi, non volevi crederci. Avevi sperato di rivederla sulla stessa spiaggia, nello stesso mare. Niente. Avevi cercato di capire, di fartene una ragione. “Non c’è niente da capire”. Oppure sì, ti pareva di aver capito che il punto fosse che “le navi di Pierino erano carta di giornale, eppure, guarda, sono andate via, magari dove tu volevi andare ed io non ti ho portato mai”. Pensavi che fosse così, eri certo che fosse così. Ma avresti potuto rimediare. Nessun’altra ti interessava, avresti atteso solo l’occasione giusta per prendere l’iniziativa e riprenderti la ragazza. Avrebbe potuto ricominciare, per non finire mai più.

 

E l’occasione arriva proprio il 27 marzo 1983. Una bella giornata di primavera, che cosa c’è di meglio per riaprire una storia d’amore? E invece no. Che cazzo, c’è la partita, e non una partita qualunque. È giorno di derby. E lei che fa? Viene con il fratello e l’amica del cuore, gobbi dentro. Lei agnostica. Chiaro che ti mette alla prova. Vabbè, quei due se ne vanno in Filadelfia, non si discute. Giulia viene in Maratona con te. Magari ci mettiamo un po’ da parte, fuori dal casino. Eh no, bravo, poi va a finire come a Como. Quella volta la partita non te la eri goduta, la ragazza neppure. Se non fosse stato per l’andata e ritorno in treno dove vi eravate tolti qualche sfizio… Era venuta per farti contento, ma tu avresti visto la partita più volentieri da solo e avresti goduto di più a vedere lei in un altro contesto. Esperienza negativa. No, stavolta la porti in curva insieme ai tuoi amici. Ti vede nel tuo ambiente, può solo farvi bene. Devi solo essere te stesso.
Così lei arriva, con il fratello e l’amica. Quei due hanno i panini, li spedisci al volo allo stadio mentre voi vi fate una pizza di corsa, da soli. Che tristezza la domenica all’apertura del forno, invece che all’apertura dei cancelli. Sei lì con lei, ma pensi al dopo. Gli amici sanno che devono mettersi un filo più larghi per tenervi il posto, per quel che si può stare larghi a un derby. Voi arrivate appena possibile. Vi rimetterete assieme? Tu dici di sì, ma mica puoi chiederglielo così. La riempi di attenzioni. Poi arrivate.

 

La scorti al solito posto in mezzo alla curva, facendo una fatica bestia, salendo da un lato e scendendo da sopra. Ci metti un po’ a entrare in situazione, il tifo è cominciato da un bel pezzo. Devi spiegarle tutto. E lei che fa? Si siede!? “Ti perdi il meglio” le dici. Poi la partita comincia. Che cazzo, in un attimo siamo sotto 1-0. Pensi che sei un somaro e che sarebbe bastato leggere le formazioni per capire come sarebbe andata a finire. A metà del secondo tempo quella si siede, che in curva è come sparire definitivamente. È stanca e stufa. Poi raddoppia Platini. Sei incazzato e non puoi dare troppo a vederlo. Vabbè, pensi, se oggi si perde la partita, poi magari lei ti consola. Sei lì che non sai come comportarti, quando segna Dossena. La tiri su prima che la curva esploda e che la calpestino. Vi abbracciate gli uni agli altri, uomini e donne, vecchi e bambini, non importa chi e come. Il Doss mostra il pugno alla curva, raccoglie il pallone in fondo alla rete e riparte di corsa verso il centro del campo. È la carica. La partita si riapre. Passa un attimo e siamo 2 a 2. Bonesso! Vista la carriera avrà sbagliato il colpo di testa. Quelli della parte alta della gradinata vengono giù in massa, come se fossero franati. Da sotto si girano e corrono in su. Ti ritrovi quattro gradini più in giù, stringi braccia, mani, spalle, baci teste mai viste e spingi schiene doppie delle tue. Ti giri, ma lei non c’è. Cerchi Giulia, ma non la trovi. È una bolgia. Chiedi ai tuoi nuovi vicini di posto, ma nessuno capisce quello che dici. Tutti lanciano cori, nessuno ascolta. Tutti gridano uno slogan, cantano un inno. Tutti diversi, tutti uguali. L’eccitazione è a mille. In campo ora sale anche Zac. Tiro al volo e gol. Chi se ne fotte di chi l’ha fatto, ma siamo 3 a 2. Nuovo rimescolamento di folla, cazzo vinciamo, non ci credi! Sì ma ora gli altri reagiranno. O forse no. Qualcuno prega. Qualcuno ci vuole bene. Il tifo è assordante. Finisce e hai vinto. Cazzo hai vinto! I tuoi ragazzi hanno battuto l’ossatura della nazionale campione del mondo, più Boniek e Platini. C’è gente che piange. Anche tu stai piangendo. Ti volti per far vedere a Giulia le tue lacrime, perché ti veda come sei. Ma lei non c’è. Tu piangi. Qualcuno distratto o superficiale potrebbe pensare che piangi perché stai male, oppure perché hai perso la ragazza. Tu piangi e ancora non sai perché. Un giorno lo saprai. Piangi perché sei stato protagonista di qualcosa di unico, di sensazionale, di eccezionale. Hai imparato che niente è impossibile. Non vuoi uscire più da lì. Sei seduto, appoggiato alla balaustra. E piangi.


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