Giampiero Ventura è davvero un figlio della sua Genova. Quella faccia dura, in apparenza burbera e severa, forgiata dalle acciaierie di Cornigliano, quartiere dove è nato nel 1948, vale ben più di una carta d’identità. Poi però basta scavare un po’ più a fondo, grattare via la patina di austerità e di apparente freddezza e ti accorgi che il decano degli allenatori di Serie A è in realtà una persona divertente, ironica ed estremamente gentile. Qualità sapientemente celate, proprio come insegna la sua città, per non lasciare che gli altri se ne possano approfittare.

Genova gli ha dato i natali, Torino lo ha di fatto adottato. Si può essere adottati a quasi 68 anni? Si, se in una città vivi e lavori come non hai mai fatto praticamente da nessun’altra parte. E dopo oltre 1.600 giorni in granata, quel colore è penetrato sin sotto la corazza di Ventura, che ha finalmente trovato il suo Eden.
Arrivato alla quinta stagione consecutiva, sembra difficile per Ventura poter rinunciare al Toro. Ma è altrettanto difficile, per il club, rinunciare a lui. Già perché l’incidenza che questo allenatore troppo spesso sottostimato ha sul Torino merita di essere analizzata ed evidenziata.

Tralasciamo la promozione, la salvezza, il 7° e il 9° posto raggiunti in quattro campionati: sono traguardi noti e arcinoti. Ciò che sorprende è l’influenza che il tecnico ha avuto per la squadra di Cairo. Di fatto, ha trasformato un Torino che senza di lui difficilmente sarebbe riuscito a riprendersi dopo anni a cavallo tra la bassa serie A e la Serie B in una compagine da ‘parte sinistra’ stabile della classifica.

Ci è riuscito modificando radicalmente la percezione stessa che la squadra ha di sé, cambiandone la coscienza più profonda. Lo ha fatto con il lavoro, con un calcio efficace ma divertente, tutto sovrapposizioni e movimenti perfettamente sincronizzati, lo ha fatto dando un gioco, il suo marchio di fabbrica. Lo ha fatto, soprattutto, con le vittorie, educando al successo i suoi ragazzi. Come riportano le statistiche di Sportnotizie24, la percentuale di partite vinte da Ventura in granata è altissima, il 40,5%. Percentuale che sale al 71% se intesa globalmente come risultati utili. Il tutto condito dai gol, parecchi. Sono 261 ad oggi, con una media di 1,37 a partita, quasi 3 ogni due gare. Sintomatico di un calcio spumeggiante eppure equilibrato, accorto.

E poi, ci sono i calciatori. Calcolare di quanto Ventura abbia fatto lievitare il valore del parco giocatori di Cairo, è praticamente impossibile. Troppo aleatorio il mercato, troppo difficile la stima. Bastano alcuni nomi, quelli ‘classici’, a rendere l’idea: Cerci, Immobile, Darmian. E poi, pur non essendo stati ceduti, di quanto si è moltiplicato il valore di pedine come Glik, Maksimovic, Padelli o Bruno Peres? Tutti soldi rientrati, in un modo o nell’altro, nelle casse societarie. E su quelli appena citati resta l’incognita rinnovo di contratto che coinvolge soprattutto il trio in difesa.

La dirigenza ha dimostrato di sapersi muovere con intelligenza, sostituendo i meglio cedibili e rimpiazzando i partenti con pedine in grado di non farli rimpiangere, proseguendo sul sentiero dell’autofinanziamento. Ma per poter attuare una politica del genere c’è bisogno di un filo conduttore, di qualcuno in grado di mettere insieme tutti i pezzi; e Ventura è il saggio, impassibile e sicuro di sé, il capitano di lungo corso capace di reggere le pressioni di una piazza come Torino con quella ieraticità, figlia dell’esperienza, che si acquisisce con anni di trincea. Ecco perché Ventura è il vero campione di Urbano Cairo, quello a cui proprio no, non si può rinunciare.


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