Marco e Gianni non hanno nulla in comune, tranne una unica, grande passione.
Marco ha 47 anni. Da sempre guida gli autobus della GTT, un lavoro ripetitivo, noioso, spesso frustrante. Raramente la gente gli si rivolge con gentilezza ed educazione, quasi mai per complimentarsi, molto spesso per lamentarsi. Svolge quel lavoro meglio che può, ligio alle regole, scrupoloso, puntuale, per quanto il traffico possa permettergli di esserlo. Cerca di essere attento alle esigenze di tutti e prova, di continuo, a mantenersi calmo. Gli riesce bene e se ne compiace. Marco è un tifoso del Toro, da una vita abbonato in Maratona, da anni attende la domenica, ma talvolta il sabato o il lunedì, per scatenare la sua passione nel tifo più sfrenato.
Gianni ha 30 anni. Si è laureato in Storia e Filosofia all’Università di Torino, punteggio massimo con una apprezzata tesi sulla critica della ragion pratica in Kant. Ha fatto il master e un paio di esperienze all’estero. Come altri è in fila nella speranza di diventare ricercatore universitario e, un domani, magari docente. Per campare accetta qualche supplenza nei licei, ma ha altre aspettative. È un giovane uomo energico, effervescente negli studi come nella vita, con una passione forte per i colori granata. Attende ogni settimana il turno di campionato, per condividere in curva con gli amici del suo gruppo le gioie e i dolori che il Toro gli offre.
Nella sua carriera di tifoso Marco ne ha viste tante. Ha conosciuto questi colori da bambino, l’anno dello scudetto. I ricordi sono vaghi, ma negli occhi ha le bandiere e l’entusiasmo della festa con il Cesena. È cresciuto tra Pulici e Leo Junior, ha conosciuto uomini veri, ha gioito per gli anni belli ed ha fortificato la sua fede attraverso le mille esperienze, belle e brutte, degli ultimi quarant’anni.
Gianni si è avvicinato al Toro quasi per caso. Il padre, simpatizzante della Roma, lo ha portato al Delle Alpi per la finale di Coppa Italia, ma a lui sono rimasti impressi i colori della folla dell’altro versante e le vene gonfie del collo di Silenzi. Ha vissuto tanti, troppi anni di serie B, quando il suo mito era Marco Ferrante e a scuola lo prendevano in giro di continuo. Aveva vent’anni quando Cimmi fece saltare il banco, ma ha visto rinascere la sua squadra con il crescendo di risultati degli ultimi anni.
Da qualche tempo Marco non riconosce nel Torino i tratti caratteristici di quelle squadre che, nel passato, lo hanno fatto prima innamorare e poi sognare. Sarà colpa del calcio spezzatino, della tessera del tifoso, delle pay tv e di chissà che altro, ma quasi non ci crede più. Durante la settimana critica continuamente la società con i colleghi di lavoro, in famiglia, al bar. Talvolta esterna sui forum i suoi dubbi su un Toro che non gli appartiene, la sua rabbia per quel Toro che non c’è più e che gli manca da morire.
Gianni vive la sua fede con i compagni del suo gruppo, con i quali chatta e twitta a più non posso. Invade i forum con il suo ottimismo e i suoi messaggi di fondata speranza. Attende con ansia la fine del calciomercato immaginando i movimenti e i gol che segnerà il nuovo attaccante in arrivo. Nel bene e nel male esiste solo il sostegno pieno e incondizionato, nessuno si deve azzardare a toccare la sua squadra.
Marco e Gianni hanno punti di vista diversi e vivono in modo molto differente la loro fede. A seconda di chi parla, il Presidente può essere un fanfarone al quale non interessa nulla della società, oppure un salvatore della patria. L’allenatore è un uomo presuntuoso ed arrogante, che non ammette gli sbagli e attribuisce ad altri i demeriti? Certo che no, ha dato un gioco alla squadra e i risultati ne sono la conseguenza: senza di lui sarebbe serie B certa. Sarà vero che il portiere è scarso, che manca il regista e che gli attaccanti non sanno che cosa sia la rete, oppure è solo un momento grigio, che si supera stando vicini alla squadra e facendo sentire importanti tutti? Marco non capisce come facciano tanti tifosi della sua età a non rendersi conto che il Toro si sta spegnendo giorno dopo giorno, che si sta andando allo sfascio e ci si arriverà quasi senza accorgersene. Gianni si chiede come facciano tanti ragazzi giovani sotto la trentina a criticare di continuo, a destabilizzare l’ambiente, a comportarsi peggio che i gobbi.
Il giorno della partita per Marco è sacro. Attende quasi fino all’ultimo fuori della curva, davanti al chiosco, prima di entrare. Conosce tutti, discute con tutti. Si sistema al centro del secondo anello, qualcuno gli tiene sempre un posto. Nei novanta minuti non si risparmia: non si perde un coro, tifa al massimo delle sue possibilità, perché sa che il rendimento dei ragazzi in campo dipende anche dalla potenza delle ugole di tifosi come lui. Gianni santifica la festa salendo ogni volta in Maratona tra i primi e offrendo una mano all’allestimento delle coreografie, fischia e ulula all’ingresso della squadra avversaria, poi si unisce agli altri negli slogan per i propri beniamini. Per lui la partita si guarda con un occhio al campo e con l’altro rivolto al lanciacori di turno, per non perdersi nulla né con la vista, né con la voce.
Oggi si gioca l’anticipo delle ore diciotto e il risultato è inchiodato sullo 0-0. In casa contro la terz’ultima in classifica, ma non pare possibile che possa cambiare. L’arbitro ha assegnato cinque minuti di recupero, che stanno per scadere. Marco è sfibrato, ma ce la fa ancora a sostenere quell’ultimo urlo, quel Toro-Toro-Toro ripetuto come un mantra, come un invito a crederci fino alla fine. L’ennesimo disperato attacco sotto la Maratona produce una mischia furibonda. Il portiere ribatte, un attaccante colpisce, un difensore si mette di mezzo, infine un calzettone granata devia in rete. Goool!! Goool! Goool! La Curva esplode, la gente si abbraccia. Si trova abbarbicato al vicino, che gli grida in faccia “gol!”. Lui lo bacia sulla fronte, poi lo stringe forte. L’arbitro fischia la fine e parte quel grido, grandioso, potente, unico, inimitabile: “FORZA – VECCHIO – CUORE – GRANATA!”. Marco lo urla guardando in faccia il suo vicino, che gli restituisce lo sguardo con la
partecipazione di un fratello. Tra una parola e l’altra Marco si accorge che ha già visto altre volte quel giovane che ha a fianco e che gli piace il suo modo di tifare. A coro ultimato glielo dice, gli manifesta la sua stima e gli chiede come si chiama. Quello ringrazia e gli fa: “anche tu sei un grande!”. Vorrebbe aggiungere che gli pare di riconoscerlo, assomiglia così tanto all’autista del 15 che lo ha portato mille volte in Università, ma non osa. Aggiunge soltanto “Gianni. Mi chiamo Gianni”.