Andrea Silenzi, dalla Reggiana al Napoli: un trasferimento di 7 miliardi. Fu un vero e proprio salto di qualità per lei?
Sì, senza dubbio. Venivo da un’annata buona e andavo nella squadra che aveva vinto il campionato. Fu un passaggio importante, dove ho scoperto un calcio diverso rispetto a quello che avevo sempre fatto. Ero arrivato in un top club, con grandi giocatori. Vero, non sono stati due anni esaltanti, ma al di là delle presenze ritengo che sia stata un’esperienza fantastica, con tante soddisfazioni. Ho vinto anche un trofeo (la Supercoppa, ndr). Ritengo siano stati due anni di sacrificio, però propedeutici a quanto sono riuscito a fare poi dopo.

 

Al Torino.
Sì, un altro grande club di tradizione, nel quale sono approdato con due anni di esperienza in più, riuscendo quindi a mettere a frutto tutto quello che ho imparato. Ho avuto le mie soddisfazioni, in granata.

 

Come per esempio il gol decisivo per la vittoria della Coppa Italia?
Per esempio! Se mi sono reso conto dell’importanza di quella rete? Non c’è mai stato troppo tempo per pensare, sono state gare dure, con un impegno psicofisico importante. Ma ci ripensi con calma, negli anni, e ti rendi conto che è stato qualcosa di bellissimo, che ha dato modo di far felice me, tutta la squadra e tutti i tifosi. Più passa il tempo e più lo realizzi, è una sensazione stupenda.

 

A quale club resta più legato Andrea Silenzi?
Lo dico sempre, il mio cuore è granata. Ma per due squadre, e al di là dei bei ricordi che ho avuto a Napoli e altre esperienze. La Reggiana resta al primo posto, ma il Toro è lì vicino.

 

Cosa accadde poi nella sua seconda esperienza all’Ombra della Mole?
A livello personale, fu un anno felicissimo. Perché tornavo a casa mia, con un allenatore che conoscevo e che mi conosceva (Mondonico, ndr). Purtroppo fu una stagione particolarmente travagliata per i risultati, e proprio quando ero riuscito a tornare titolare mi ruppi un braccio, per tornare poi soltanto a fine stagione. Nonostante la retrocessione, pensavo e speravo di rimanere, ma poi il Torino cambiò proprietà e come spesso capita si fanno altre valutazioni.

 

Da un allenatore esperto a un altro: ha citato Mondonico, cosa pensa di Ventura?
Ho avuto modo di conoscerlo a Coverciano, quando stavo seguendo i corsi per il patentino di allenatore. È una persona a modo, un grande conoscitore di calcio. Se ha fatto bene al Toro? Rispondo così: ce lo ricordiamo tutti dove era, il Toro, fino a qualche anno fa? E la sofferenza che si pativa per cercare di ottenere un risultato? Penso abbia fatto molto, e la squadra piano piano migliorerà ancora. Sono un estimatore della politica dei piccoli passi, l’ho sempre apprezzata.

 

A Torino, però, sono arrivate spesso delle critiche al tecnico granata. È vero che ci sono tante pressioni? Lei le percepiva, da giocatore?
Io penso che il tutto vada visto in un’ottica diversa. Quando giocavo io, non c’era tutto l’interesse mediatico di adesso, che si è decuplicato. Tutto questo fa sì che le pressioni aumentino: quando ero un giocatore l’interesse da parte del pubblico c’era, ma non era così pesante. Come ogni cosa, ci sono dei pro e dei contro: questo è il contro. Dall’altra parte, però, se si fa bene allora si ha la tendenza ad amplificare anche i meriti. È un po’ un cane che si morde la coda. Adesso, in generale, si sanno vita, morte e miracoli di un calciatore, che spesso sia avvale di questa possibilità per dare tutto in pasto ai media. Quindici, vent’anni fa si faceva più attenzione a mettere in piazza i fatti più o meno privati, ecco.

 

Insomma, sarebbe stato difficile vivere, come hanno vissuto migliaia di tifosi, la vicenda Icardi-Maxi Lopez?
Proprio così, sarebbe rimasta in seno a chi l’ha vissuta, e alle persone a loro vicine. Pensiamo a Maradona, e a tutto quello che questo personaggio ha comportato. Pensiamolo oggi: sarebbe stato distrutto. A Napoli, Maradona è stato gestito in una certa maniera, dove l’opinione pubblica sapeva qualcosa ma non tutto e il contrario di tutto. La pressione, tornando alla prima domanda, deriva da tutto questo nuovo mondo. E non è nemmeno solo una questione di grandi club. Una volta, per sapere i risultati del Pontremoli, dico una squadra a caso, avrei dovuto aspettare il giornale del martedì; ora, invece, in meno di un’ora ci sono almeno tre siti che ne parlano, dove i tifosi si possono confrontare, dare giudizi elogiativi e non. Questo è cambiato, e questo chiaramente cambia il modo di interagire con questo mondo.

 

Qualcosa, però, è rimasto intatto: due giorni fa si è celebrato il tragico anniversario di Superga, e il mondo del calcio si è fermato.
Il 4 maggio è una data che in famiglia ricordiamo molto. Ho avuto anche l’onore, un anno, di leggere i nomi della lapide, da capitano. Il mio pensiero va a don Aldo, che ci guarda da lassù. Del mio Torino sono mancate delle figure importanti: a partire dal don, fino a Domenico Marini, fisioterapista ma anche confidente e amico, e Nino Franco, il nostro accompagnatore. Il mio pensiero, questo 4 maggio, è andato anche a loro, non solo agli Invincibili. Il loro ricordo resta vivo, vivissimo.

 

Ci fosse qualcosa che invece volesse dimenticare di Torino, cosa direbbe?
La retrocessione, senza dubbio. E poi basta. Il tempo, diceva sempre mio nonno, stempera tutto: si tendono a ricordare solo le cose belle. Ma questa proprio non riesco a mandarla giù.

 

E adesso di cosa si occupa Andrea Silenzi?
Ho vissuto un’esperienza da dirigente nella Cisco Roma in amicizia: avevo ricomposto il duo granata con Giorgio Venturin che mi chiese di dargli una mano nel seguire le giovanili. È un ruolo che mi è piaciuto molto, che prende tanto tempo e tanto impegno mentale. Stavamo facendo un buon lavoro, ma, proprio come a Torino, poi cambiò la proprietà, e di nuovo si è rimesso tutto in discussione. Decisi di dimettermi. Se ho smesso con il calcio? No, ma resto un professionista: se vado a fare qualcosa, la devo fare come so, ma è difficile impostare un lavoro da zero, spesso si viene calati in realtà dove non c’è mai il tempo per pianificare.

 

A Reggio Emilia gioca invece Christian. Un attaccante sulle orme del padre?
Sta facendo sicuramente una bella esperienza. È piccolo (18 anni, ndr), l’anno scorso era all’Inter e ora è passato alla Reggiana, dove ha iniziato un percorso di crescita che in cinque mesi lo ha portato in pianta stabile in prima squadra. Non sta giocando molto, ma l’importante, gli dico sempre, è il confronto con i giocatori veri. Il settore giovanile è bello e affascinante, ma il passaggio con i grandi è difficilissimo. Con lui, per esempio, gioca Danza, che l’anno scorso ha vinto lo Scudetto proprio con il Toro: ha trovato spazio, anche a causa di un infortunio, solo adesso. Si deve masticare molto duro, anche in Lega Pro: sono in pochi i giovani calciatori che riescono davvero a fare un salto in avanti.

 

Chiudiamo con una domanda di strettissima attualità: da ex attaccante, preferirebbe vedere Immobile o Belotti in Nazionale?
Inutile dire che dipenderà molto dalle necessità di Conte: sono due giocatori con caratteristiche diverse. Immobile ha dei colpi davvero importanti, Belotti per caratteristiche e modo di giocare, con tutta quella generosità, si avvicina molto a quella che è la filosofia Toro. Se ne preferisco uno in particolare? Scherzando, potrei chiedere: meglio Pulici o Graziani? No, non potrei scegliere. Fin quando il giocatore, indipendentemente da chi, è nel Toro, io tifo per lui: rappresenta il Toro, quella maglia. Lo apprezzo finché sta lì e in quella maglia prova a buttare del sudore. Se poi dovesse andare via? Spero che allora venga sostituito con uno di più forte. Questa è la politica dei piccoli passi, d’altra parte. E può portare lontano.

 

 


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