Che cosa spinge uomini adulti a piangere per un derby? Ricordo bene il rimbalzo strano dell’ultimo gol, vent’anni fa. Ero allo stadio, bambino tredicenne, con un po’ di amici (persino qualche juventino). Rizzitelli aveva colpito Peruzzi con un tiro, e il pallone era salito a campanile, su su. Sembrava non volesse scendere più. Quando aveva toccato la rete, sotto la loro curva, non sapevo che avrei dovuto aspettare tutto questo tempo. Vent’anni, e un mondo in mezzo.

Domenica non ero allo stadio, e neppure davanti alla tv. Poiché la vita riserva sempre molte sorprese, per una serie di circostanze mi trovavo lontano da Torino e da Roma, casa mia, mentre l’Olimpico ribolliva e tremava e faceva tremare, domenica alle 15. In auto, da nord a sud. Mi era capitato anche lo scorso anno, in quel Torino-Genoa che non devo stare qui a ricordare, tanto ce lo abbiamo dentro. E pure, ma in direzione opposta, quest’anno a dicembre, in quell’altro Torino-Genoa che è stato l’inizio della riscossa. Il problema è che quest’anno ero in macchina con il mio amico Lorenzo. Bravissimo ragazzo, però juventino. Per fortuna juventino romagnolo, quindi non accanito contro di noi.

Lungo la strada avremmo incontrato diverse gallerie, e in mancanza di cure preventive per l’infarto, avevo creato una rete di contatti quasi perfetta per non perdere nulla o quasi della partita dell’anno. Radio, smartphone con SkyGo installato, messaggi di mia moglie davanti alla tv con mio figlio e messaggi di amici dallo stadio. Un derby tridimensionale, dato che la radiocronaca viaggiava un minuto avanti rispetto a SkyGo, che a sua volta era 30 secondi in ritardo rispetto alla tv di mia moglie. All’inizio la radio era spenta, i messaggi silenziati, e le immagini della partita scorrevano sul cellulare. Le urla dello stadio sovrastavano le voci di Caressa e Bergomi, il mio amico Lorenzo guidava e taceva. Ogni fottuta volta che il Toro si avvicinava all’area juventina SkyGo si impallava. Immediatamente accendevo la radio, proiettandomi 60 secondi avanti nel tempo, scrivevo a mia moglie, guardavo un paio di foto che mi arrivavano dallo stadio e poi riaccendevo SkyGo, ripiombando indietro nel tempo, ma attento a vedere se per caso in quel minuto che già avevo sentito in radio non succedesse comunque qualcosa di diverso. Col Toro non si sa mai.

Ho fatto in tempo a vedere il fallo di Gazzi, poi una galleria ha inghiottito la mia connessione. Appena la radio ha smesso di gracchiare Cucchi ha gridato “Rete!”, io ho detto molte volgarità, mi sono dato un pugno sulla gamba e ho iniziato a scrivere messaggi pessimisti a mia moglie usando il “fanculo” come punteggiatura. A quel punto, ovviamente, è ripartito SkyGo. Giusto in tempo per vedere i nostri un po’ in bambola, e cadere nello sconforto. Parlavo da solo, Lorenzo non osava dirmi niente. Altre gallerie, altro vuoto, e lo sguardo all’orologio. “Dovremmo fare come a Bilbao”, ho pensato, “Gol nel recupero. Se pareggiamo prima della fine del primo tempo vinciamo”. Quel gobbo dell’Appennino impediva alle onde radio di raggiungermi, ma poiché la Verità alla fine trionfa sempre, Radio Uno è tornata a sentirsi chiaramente poco dopo. “Noi abbiamo patito la mazzata, mi pare”, scrivo a mia moglie. “Pareggio del Torino!”, grida Cucchi, che non ho mai amato come in quel momento. “Sìììììììììì!”, grido io, gli occhi che si inumidiscono.

Finisce il primo tempo, io guardo in alto stringendo il pugno e sussurro “sì” in continuazione. Lorenzo forse è preoccupato per me, ma non osa dirmelo. Durante l’intervallo abbozziamo un discorso. Poi ricomincia la partita. Il problema è che cominciano anche ad aumentare le gallerie. SkyGo funziona per un po’, giusto il tempo di vedere il palo di Pirlo, la faccia di Padelli, e ritrovarmi con un altro ciuffo bianco in testa per il colpo al cuore. Vorrei guardare che si dice sui social network, ma sono scaramantico e so che se scrivessi qualunque cosa – QUALUNQUE – si romperebbe l’incantesimo che ci sta facendo pareggiare. Mia moglie manda messaggi incomprensibili su falli “in area”. “Cioè”. “Non è rigore per noi”. Io sbianco, poi divento paonazzo, e SkyGo per punirmi si impalla per l’ennesima volta. Lo stacco, ‘sto fatto che in radio sono più avanti di un minuto non mi va giù. Da adesso in poi ascolterò solo la radio.

Sull’Appennino comincia a piovere. Poi, a un certo punto, la luce: “Torino in vantaggio! Ha segnato Quagliare… CZZZFTTSZZZZZ”. Galleria. Ma non una galleria qualunque. Il tunnel del Gran Sasso. “Noooo!”, grido guardando la radio muta e il mio smartphone che segnala “nessun servizio”. Davanti a me ho dieci minuti di buio nei quali già immagino che succeda di tutto: “Quando arriveremo dall’altra parte – dico a Lorenzo – voi starete vincendo 3-2 e Glik sarà stato espulso”. Lui non sa se ridere. Ovviamente nel tunnel c’è traffico, e i chilometri non passano. Io guardo il telefono, morto. A un certo punto, però, suona il telefono di Lorenzo. “Ma come fa a prendere qua sotto?”, gli chiedo, pensando che Moggi gli abbia passato una sim truccata. Nello stesso istante penso che però è un’àncora di salvezza anche per me: in caso di maxi tamponamento o incendio in galleria potrei comunque chiamare qualcuno con il suo telefono e farmi aggiornare sul derby. Lorenzo risponde, è suo figlio di cinque anni che piange. Piange perché la Juve sta perdendo. Non avrei mai pensato in vita mia di ridere davanti al pianto di un bambino. Lorenzo cerca di tranquillizzarlo sviandolo dal problema, balbettando banalità sullo scudetto già in tasca e la Champions imminente. Nel frattempo però che starà succedendo a Torino?, mi chiedo io divorandomi pure le nocche delle dita.

Il tunnel finisce, vedo il video del gol di Quagliarella che mi ha girato mia moglie su WhattsApp, che poi aggiunge: “Sofferenza ora”. Guardo l’ora: 20 minuti di sofferenza. I ragazzi forse ce la fanno, io no. La radio va e viene, i messaggi di mia moglie sono sempre più criptici. “Angolo”. Per chi?!?. “Palo” Di chi?!?. Io conto le gallerie, a un certo punto la radio grida “Pareggio…”, mi sento morire “… del Chievo”. Ma vaffan… Poi le frequenze di Radio Uno vengono scalzate da quelle di qualche radio locale. WhattsApp si impalla. Io sono in trance. Dalle casse parte una mazurka, io ho le allucinazioni e vedo ballare sul cofano dell’auto di Lorenzo Del Piero e Marisa Boniperti, che ridono beffardi. Di colpo mi arrivano in fila sette messaggi di mia moglie, che se avesse scritto in sanscrito sarebbero stati più chiari.  “Per ora niente”. “Palla a metà campo”. “Tiro di Vidal”. “In curva”. “Fuorigioco”. “Merda”. “Martinez”. Cosa??? Cooosaaaa??? Mi chiama, mi spiega a voce che hanno annullato un gol a Martinez, solo che nel frattempo qualcuno di loro prende un palo. Potrei morire.

Il resto è ricordo confuso e dolcissimo. Moretti che resiste nonostante sia senza una gamba, il recupero eterno, Cucchi che racconta il forcing bianconero senza sbocchi, la parata di Padelli e la buca di Maspero che si reincarna in una zolla al limite dell’area e fa sbagliare Pirlo. Eh no, mio caro, non ti può andare sempre bene. Gazzi spazza, mancano 30 secondi, pare che i raccattapalle abbiano avuto tutti contemporaneamente un attacco di mal di pancia e siano corsi in bagno. Quando mancano 10 secondi Lorenzo si ferma a un autogrill. Lo notizia della liberazione finale mi fa gridare di gioia, abbraccio Lorenzo e poi gli dico: “Scendi tu, io ti raggiungo”. Lui prova a spiegarmi dettagli sulla chiave dell’auto, poi ci rinuncia. Quando chiude la portiera ho già spento la radio. Improvvisamente è silenzio. E io piango. 

Rivedendo il gol di Darmian, più tardi, ho ripensato a quella parabola così simile che assunse il tiro di Rizzitelli, vent’anni prima. E quando ho visto il tocco di Quagliarella, cresciuto al Toro, sbandato alla Juve, e poi tornato per riscrivere la storia, ho pensato a ogni singola partita di questi vent’anni. Ogni singola partita. A ogni Castel di Sangro, Cittadella, Crotone. A ogni stagione balorda in serie A. A ogni derby perso, a ogni derby pareggiato. Non so dire se me la sentissi, prima. So che forse dovrei sentire più partite in radio, se finiscono sempre così.

So che quando Tagliavento ha fischiato la fine vent’anni si sono bruciati in un istante. Quella parabola dopo il tiro di Rizzitelli, che lì per lì aveva preoccupato me bambino, aveva semplicemente disegnato la traiettoria dei vent’anni successivi. Un’attesa impensabile, terribile e dolce. E come in un romanzo di quelli che fanno piangere, alla fine tutti sapevamo che Fattori aveva segnato a Buffon, Maresca aveva colpito la traversa, Trezeguet e Tevez erano stati fermati in fuorigioco, Benassi non era mai inciampato su quel pallone. Una sorta di redenzione collettiva, a quel fischio finale.

Quei padri che sugli spalti abbracciavano i figli piangendo, quei ragazzi di vent’anni che vedevano una cosa del genere per la prima volta, io chiuso nella macchina di un gobbo in un autogrill sperduto del centro Italia con le lacrime agli occhi, e mio figlio a casa con la maglia di Cerci che saltava sul divano (“io questa non me la tolgo più, papà”). Tutti stavano partecipando misteriosamente di una cosa in sé ridicola e superflua – un gioco – ma nel frattempo serissima e profonda – un popolo. Il calcio porta sempre con sé un barlume di verità. Idealmente c’entra con il bello, e il giusto. Che cosa spinge uomini adulti a piangere per un derby? Nessun sentimentalismo. Si chiama appartenenza. E la nostra non ce la toglierà nessuno. Mai. Bentornato Toro. Ora, non più vent’anni fa.

 

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Nato a Torino nel 1981, laureato in Giurisprudenza, vive da qualche anno a Roma dove fa il giornalista per il Foglio e cura la newsletter quotidiana GoodMorning Italia. Ha cominciato a tifare Toro un paio d’anni prima della retrocessione in B del 1989: invece di capire l’antifona, da allora non ha più smesso.

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