Quando dalla tua hai 150 partite all’attivo in sei anni, vuol dire che proprio di passaggio non sei stato. Un ex difensore grintoso, arcigno, come Paolo Beruatto, poi, difficilmente si dimentica. E proprio Beruatto fu uno dei protagonisti di quel Milan-Torino 0-1 del 1985, ultima, remota, vittoria dei granata in campionato in casa dei rossoneri.

Sono passati trent’anni, il tabù può essere sfatato?
Calcisticamente sono davvero tantissimi, è una statistica che mi stupisce davvero molto. Però posso capirla: giocare a San Siro è sempre un’emozione unica, e i successi nella carriera di un giocatore si contano sulle dita di una mano. Mi ricordo che quando ero giovane, non c’era alcun tunnel che portasse agli spogliatoi, si passava direttamente davanti alla curva, e non era mai una cosa facile. Con i compagni non riuscivi nemmeno a parlare. Se i giocatori sentiranno questo peso? No, anzi avranno un sacco di stimoli. È bello giocare a San Siro, ancora più bello è uscirne vittoriosi.

E questo Torino può farcela?
Sì, perché di fronte c’è un Milan con poche motivazioni, con la sola preoccupazione di non fare una brutta figura; mentre i granata devono cercare di arrivare all’Europa League. Hanno l’obbligo di crederci: devono fare sei punti in due gare, e sperare in un passo falso degli altri. Peccato solo per la sconfitta in casa contro l’Empoli. Onestamente, penso che il Toro meriti l’Europa League: hanno fatto un campionato strepitoso, sarebbe un peccato. Spero in una vittoria!

Un amore verso il Toro mai sopito, o riscoperto?
Mai sopito, senza alcun dubbio. E mi ha fatto moltissimo piacere rivedere Leo Junior, un amico, un Uomo vero, qualche giorno fa. Io nell’86 andai via, e mi allontanai molto da tutto: il Toro prese una strada, io un’altra. E poi lavorativamente non siamo più riusciti a incrociarci. Ma tornare dopo anni e sentire tutto il calore della gente, è stato fantastico, credetemi. Da brividi. E infatti ancora più mi rammarico per non essere riuscito a venire ai festeggiamenti del centenario: scelsi di seguire il lavoro, di restare con la squadra che allenavo (la Spal, ndr). È forse il mio più grande rimpianto, anche perché un centenario capita una volta sola nella vita, e forse con una squadra sola. Ma comunque, ripeto, tornare di recente e ritrovare tutto il calore della gente granata mi ha fatto un enorme piacere. La fiammella del Toro, l’ho capito molto bene, non si spegne mai.

Cosa può aver contribuito, secondo lei, a non farla spegnere?
Una risposta ce l’ho, ma non fatemi poi parlare per frasi fatte, perché non lo farò. È il Filadelfia. Se so spiegarvi cosa voglia dire? No, e non voglio dire di “Vecchio cuore granata” o slogan simili. Io dico solo che chi ha vissuto quel periodo, in quella casa di proprietà, sa cosa vuol dire. Ed è una sensazione unica, bellissima.

Torniamo a Milan-Torino: due allenatori a confronto. Uno, molto giovane, l’altro molto esperto. Da chi è passato dal campo alla panchina, come lei, quanto si percepisce il salto?
Molto. Un conto è giocare, un conto è allenare. È un passaggio, e come ogni passaggio richiede molta esperienza. E quella te la dà soltanto il campo. Inzaghi, secondo me, è un allenatore validissimo: ha fatto una full immersion, quest’anno, a livelli altissimi. Adesso sta facendo fatica, in futuro, invece, capirà quanto questa stagione gli è stata utile.

Come lui anche Gattuso? A Palermo è stato il suo vice: non si rischia troppo il “guardiolismo”?
Attenzione, però, che a Barcellona Guardiola se lo sono tirato su da soli. Gli hanno fatto fare tutta la lunga trafila. In Italia, invece, sembra sempre che manchi il tempo: tutti vogliono vincere, non è semplice. Ripeto, ci vuole esperienza da un lato, ma pazienza dall’altro. Quando decidemmo di intraprendere quell’avventura con Gattuso in rosanero, sapevamo che sarebbe stata molto dura. Con così poco tempo, come fai a giudicare una persona?

Ventura, invece, a Torino è riuscito a sfatare un tabù con Cairo: mai allenatore era durato di più sulla panchina granata.
Parliamo proprio di un opposto. Ventura è completo, ha tutto, ha esperienza. Sta sfruttando al massimo le sue qualità, riuscendo a trovare ottimi risultati. Ha un’idea di calcio precisa, che porta sempre avanti. Ed è questo che mi piace di più. Ventura, in questo momento, è al top tra gli allenatori italiani. Il Toro dovrebbe tenerselo stretto. E poi ha fatto migliorare tantissimi giocatori.

Si riferisce a Glik?
Ma non solo. Però mi piace ricordare proprio il capitano del Toro, e Darmian. Io, quando allenavo le giovanili del Palermo, ho avuto modo di conoscere bene questi due giocatori, oltre a Bovo. Lui era già affermato, loro invece alle prime armi. E sapete cosa pensai? Che sarebbero riusciti entrambi a fare strada. Perché sono esattamente quel tipo di giocatore che piace tanto agli allenatori: tanta voglia di imparare, tanta abnegazione. Glik e Darmian sono il classico esempio del fatto che il lavoro possa davvero pagare: tutto quello che di buono stanno ottenendo, se lo sono sudato sul campo. E questo è un ottimo modo per intendere il calcio, per essere da Toro. Sì, da Toro. Anche la loro fiammella difficilmente si spegnerà.


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