Ho affrontato la visione di Torino-Chievo come si affronta un pic-nic di famiglia in un parco di Roma in una domenica afosa di maggio: riluttante, convinto di non potermi aspettare più di tanto, ma beatamente rassegnato. Ma così come persino un pic-nic di famiglia in un parco di Roma può rivelarsi scelta azzeccata e divertente, così la visione di Torino-Chievo mi ha svegliato dal torpore in cui quel maledetto gol annullato a Palermo aveva gettato me, la squadra e tanti di noi. Finita, andata, rovinata, le avevamo già pensate tutte, dopo Empoli e Genoa. Si erano rivisti gli avvoltoi di qualche mese fa, a cui sono bastati un autogol, sette minuti di black-out e un calo fisico per buttare tutto, per dimenticare tutto. Quelli che lo scorso anno dicevano “siamo in Europa, ok, ma non abbiamo vinto il derby, quindi non me ne frega nulla” adesso sostenevano che “abbiamo vinto il derby, ok, ma non andiamo in Europa, quindi non me ne frega nulla”. Siamo tifosi mica per altro, innamorati perennemente offesi ma eternamente fedeli. La visita di Leo Junior, nei giorni prima del Chievo, mi pareva fosse stata cosa buona e giusta. Io Junior me lo ricordo a malapena, bambino che ero, ma ne ho sentito parlare, e l’ho sentito parlare, ed è come se lo avessi conosciuto da sempre. Ho visto un video in cui spiegava a Maxi Lopez l’importanza dei valori del Toro, l’amore della gente e per la gente. In un altro raccontava a Glik l’importanza di questa maglia. Diceva che ha rivisto in questo Toro lo spirito di quello degli anni Ottanta. E se lo dice lui.
Torino-Chievo non mi esaltava sulla carta, ma come ogni partita del Toro mi esaltava sotto pelle, dentro al cuore. Quando ho visto Maxi Lopez allungarsi con quel meraviglioso ciuffo da tamarro il pallone poco dopo la linea di metacampo non ci ho davvero creduto. E’ troppo grasso, ho pensato, queste cose le faceva Ciro Immobile, lui verrà ripreso, o calcerà sul portiere, o fuori. Quando l’ho visto scattare così, e appoggiarla proprio laggiù, ho gridato tantissimo. E più forte di me ha gridato mio figlio.
Ho finito la visione di Torino-Chievo cominciando a fare calcoli, tabelle, incroci e preghiere. “Se vinciamo a San Siro…”, ho iniziato, per poi subito fermarmi a pensare che una frase del genere solo un paio di stagioni fa sarebbe stata surreale. E invece. “Se vinciamo a San Siro…”. Poi mi ha scritto un vecchio amico del Toro: “E dopo oggi si spera ancora!”. “Finché c’è Maxi c’è speranza”, gli ho risposto io. Ci siamo lasciati andare a calcoli sulle altre, sapendo che l’incrocio di risultati che ci manderebbe in Europa è improbabile. Mi sono accorto che in una vita intera non mi era mai capitato di finire due stagioni di fila essendo abbastanza adulto da poter calcolare, calendario alla mano, le nostre possibilità di andare a giocare in una coppa. Poi il mio amico mi ha spiegato perché, nonostante tutto, siamo ancora qui. Senza saperlo, mi ha spiegato perché: “Noi del Toro siamo così. Ci scoraggiamo, imprechiamo… ma non molliamo mai, anche quando si tratta di sperare, e a differenza di altri che credono nei soldi, noi crediamo nei miracoli”.