Qualcuno, a fine partita, ha provato a far pronunciare a Ventura quella parola, la famosa “libidine”. Da queste parti, però, i tormentoni non piacciono molto: via la libidine, via Cittadella, via anche la crescita. Perché a Torino negli ultimi anni in tanti hanno provato a dare lezioni di granatismo seminando parole e raccogliendo briciole. Non è colpa dei tifosi, diventati ormai quasi allergici a qualunque tipo di ammiccamento. E alle promesse, il meglio del repertorio del decennio appena trascorso. Da queste parti piacciono più i fatti, meno i giri di parole. Ed ecco perché nella notte di Mondovì dell’estate del 2013, quando Ventura aveva annunciato che mancava solo il derby a coronare il percorso del suo Toro, molti avevano storto il naso. Non si era ancora vissuta la stagione scorsa, quella culminata con l’Europa, né quella in corso, con la storica vittoria al San Mames. Il Toro ha sempre avuto dalla sua l’affetto dei tifosi: anche nei momenti più bassi della storia granata la gente non ha mai cessato di stare vicino alla squadra. Serie B o A, poco importa.
La vittoria di ieri, quel successo nel derby che mancava da vent’anni, è stata cercata e voluta. Chi ieri è andato allo stadio non lo ha fatto per partecipare o, come sottolineato da Giampiero Ventura, semplicemente per esserci, ma “per vedere il Toro vincere”. Il Toro che ha mandato in estasi uno stadio e una città intera è squadra che non vuole più assistere allo spettacolo ma esserne protagonista. Il Toro che ha steso una Juve vicina allo scudetto, in semifinale di Champions e in finale di Coppa Italia, è squadra che ora ha finalmente capito di avere i mezzi per tentare sempre l’impresa. Lo ha capito il gruppo, lo hanno capito i tifosi. Per quello il Toro è andato a San Siro e ha vinto, per quello è partito alla volta del San Mames tornando con la qualificazione in tasca, per quello è sceso in campo ieri. Per vincere sapendo di averne la possibilità e non per tentare di limitare i danni. Non perché vincere sia l’unica cosa che conta, ma perché l’idea di poter sempre avere la possibilità di vincere fa parte del dna di questo club. Qualcuno lo aveva dimenticato riducendolo, col passare degli anni, a grinta e cuore. Come se il Toro fosse solo foga e rabbia, come se tutto potesse limitarsi a qualche rimonta di tanto in tanto o a pareggi inaspettati acciuffati all’ultimo respiro. O, ancor peggio, come se quell’espressione “da Toro” legata agli episodi più incredibili (pali, rigori, lacrime, gol subiti a tempo scaduto) non potesse al contrario tornare ad avere la valenza originaria. Quella che da domani, forse, lo renderà meno simpatico. Quella che ieri ha fatto emozionare e piangere tre generazioni e che ha portato i tifosi a scendere per le strade. Non per festeggiare una vittoria, ma per festeggiare “la” vittoria: per mettere fine a vent’anni di beffe, soprusi sportivi e per dare finalmente un calcio alla sfiga. Il Toro è anche, ma non solo, quello che una volta caduto ha la forza di rialzarsi. Il Toro è quello capace di andarsi a prendere quello che vuole perché ha capito che ne ha la forza. Il derby è la ciliegina che deve diventare bella abitudine: e nel frattempo, a proposito di abitudini, l’Europa è ancora più vicina.