Toro-Cesena vuol dire tanti ricordi personali.
Per esempio vuol dire 1991. Sono al Battesimo di mio cugino: primo tempo in chiesa, senza nessuna informazione. Ripresa fuori. Quando accendo la radio, circa al 50’, mi sento come chi, negli anni ’70, quando a Tutto il calcio trasmettevano solo la ripresa, si apprestava ad ascoltare il giro della morte dei vari campi coi parziali. Nel giro della morte, però, non c’è il Toro: infatti, quel giorno, c’è uno sciopero della sede Rai piemontese che, così come capiterà negli anni successivi con le domeniche ecologiche, cade sempre quando il “Delle Alpi” è granata, e gli aggiornamenti arrivano da Massimo De Luca in studio. Che, finalmente, parla e dice rigore per il Toro, ma senza ricordare il punteggio: Bresciani lo sbaglia e apprendo anche che “il risultato rimane 1-0 per il Cesena”. Doppia mazzata. Passo il resto del pomeriggio aspettando un boato liberatorio, poi quando ne arriva uno mi ricordo che non siamo campo collegato e allora provo ad andare sulle radio private, per sentire solo il Toro, ma la mia radiolina riceve solo le onde medie. L’incubo kafkiano si rompe, clamorosamente, nel finale: per una volta, dopo tante beffe negli ultimi minuti, siamo noi a usare la zona Cesarini a nostro favore. Lentini e Dino Baggio ribaltano il risultato contro i romagnoli, in dieci per l’espulsione di Amarildo che a fine stagione giocherà con la nostra maglia in Mitropa Cup (un altro corto circuito pazzesco), e la corsa Uefa continua.
Toro-Cesena vuol dire anche 1996. Appena retrocessi in B, ma freschi di un pareggio in amichevole col Real Madrid che ci gasa tantissimo, nonostante la rubatissima eliminazione in Coppa Italia per mano del Bologna qualche giorno prima, affrontiamo ancora i bianconeri nel primo impegno di un campionato che sarà indecente. Più che per il miracolo di Casazza su Hubner in apertura o per la papera di Fiori sul tiro di Florijancic che ci darà tre punti, la partita è importante perché è la prima allo stadio con Stefano che, da quel momento, diventerà il fedele compagno di Maratona. Un po’ come Pete per il Nick Hornby di Febbre a 90’. Per fortuna, negli ultimi anni, ci stiamo rifacendo degli scempi dei primi, ma siamo ancora in credito.
Però ci sono momenti in cui bisogna lasciare da parte i ricordi personali, per fare alla Storia. Perché Torino-Cesena è stata, è e sarà sempre la partita dello Scudetto, il primo dopo-Superga, l’ultimo non so fino a quando. E io sono arrivato tre anni dopo e Dio solo sa quanto avrei voluto esserci stato.
Quel 16 maggio fa caldo. Un caldo che l’attesa rende quasi crudele. Se ci fossi stato non so come l’avrei sopportato, già provato dalla tensione con cui la calura provoca un mix bestiale. Un mix che ha rischiato di farmi svenire contro il Perugia, nel playoff 2005, un mix che mi ha fatto andare la pressione alle stelle contro Bologna e Genoa nell’anno della stramaledetta retrocessione 2009. Però lì era una tensione diversa: una promozione in A agli spareggi o una salvezza sono partite importanti, ma hanno un retrogusto strano. Già “la partita della promozione” fuori dal discorso playoff ha un sapore diverso. Non parliamo di altri obiettivi: la finale Uefa, la finale di Coppa Italia, la trasferta di Bilbao dei giorni nostri. Più il traguardo è grande, più ti astrai, vai in un’altra dimensione in cui il resto del mondo non ti può toccare: è come se quella partita diventasse qualcosa di puro e cosa ci può essere di più puro di uno scudetto ventisette anni dopo gli Invincibili?
Quel pomeriggio il Comunale è da manuale. Lo sarà prima e lo sarà dopo. Prima è tutto bianco e granata. Ormezzano, quando vedrà lo spettacolo delle bandiere che iniziano a sventolare prima della gara, scriverà: “Fu in quel momento che qualche giornalista, compreso il sottoscritto, seppe che avrebbe scritto un articolo bruttissimo, inferiore ai desideri, alla situazione”. Ed è vero, perché a volte non puoi dire quanto sia bello qualcosa, quanto conti con le parole. Il rischio è di essere guardato con condiscendenza. Però, se lo dici o lo scrivi a qualcuno che dentro sente le tue stesse cose, le parole diventano qualcosa che ti fa tornare lì, in mezzo alle bandiere. Anche se non ci sei stato. Se ci fossi stato mi sarei guardato intorno con le lacrime agli occhi e non certo per i fumogeni, con i brividi lungo la schiena, perché finalmente sta per cominciare e possiamo riversare sul campo, coi piedi i ragazzi e con gli occhi e la voce noi, una settimana di attesa. Ma cosa dico, ventisette anni di attesa.
Se ci fossi stato, al fischio d’inizio di Casarin, quando il Toro sembrava in difficoltà, perché consapevole di star giocando a qualcosa di diverso che a una semplice partita di pallone, mi si sarebbe stretto il cuore, non avrei più respirato, non avrei più neanche avuto la forza di parlare. Un nodo che si sarebbe sciolto parzialmente, con la ripresa di quota di Capitan Sala e compagni col passare dei minuti, ma sarei arrivato all’intervallo “male”. L’intervallo è sempre una dimensione a parte: quando sei sotto non vedi l’ora di ripartire perché hai un macigno addosso, quando senti che la stai per sbloccare e giochi bene pensi lo stesso, perché non vuoi che l’incantesimo ti spezzi. Te lo godi di rado, una di quelle rare volte è il derby di quest’anno, quando ci siamo arrivati un istante dopo il pareggio di Darmian. Non so nemmeno io come l’avrei passato quel giorno: paura, mani nei capelli, trance. Non lo so. Ma sarebbe stata una di quelle volte in cui il tempo avrebbe dovuto muoversi.
Ovviamente avrei avuto la radiolina, perché, anche se eravamo padroni del proprio destino, non si sa mai. Ovviamente i vicini mi avrebbero guardato come un oracolo, perché quando hai la radiolina e senti prima ciò che fanno “gli altri”, in qualche modo lo sei. Ovviamente, appena avuto notizia del gol del povero Curi, avrei urlato. L’ho fatto l’anno scorso quando Brienza segnò contro il Milan, mentre aspettavo il mio turno per il bagno prima di Toro-Parma, decisiva per l’Europa League: non andò benissimo la reazione altrui (c’era chi credeva avesse segnato il Milan…) e sul campo andò ancora peggio, ma in quel giorno di trentanove anni fa, se avessi urlato avrebbero capito tutti il motivo. Perugia 1 Juventus 0.
L’immagine la conosciamo tutti a memoria: Graziani che sbaglia uno stop nei pressi della linea di fondo, Graziani che non demorde e che crossa il pallone, Pulici che si butta sulla sfera che viaggia a mezza altezza, Pulici che vola come un supereroe, che anticipa Danova, che gonfia la rete, che salta sotto la curva, che abbraccia e viene abbracciato dai tifosi, abbraccia e viene abbracciato dai compagni, il signore coi baffoni che arriva e si unisce al gruppo, il signore col cappello che bacia Pupi, il ritorno a centrocampo a pugni alzati. Se ci fossi stato, in quel momento, avrei perso completamente il senno. L’ho perso per un gol di Loria alla Triestina al 94’, cosa mai farei per un gol che vale il sogno di una vita?
Poi, nell’ingranaggio perfetto di una domenica perfetta, arriva il granellino. Quel granellino che, sembra impossibile, ma mi da ancora fastidio ogni volta che lo vedo, pur sapendo com’è finita. Cos’è un granellino in confronto allo scudetto? Un granellino, appunto. Ma se si sposta in una certa maniera, infastidisce. Ti sfreghi l’occhio e se n’è andato, però l’occhio adesso è rosso. Un lancio senza pretese, Mozzini che colpisce di testa all’indietro, Castellini fuori causa, il record di quindici vittorie interne su quindici che non si completa. Se ci fossi stato, avrei avuto paura, indeciso fra lo spingersi avanti per il 2-1 e il tenere il pareggio, sperando che la Gobba non ne facesse due a Perugia.
Ma la gobba, a Perugia, due non ne fa e anche il tempo che si annulla e non passa si deve arrendere. Se ci fossi stato, non lo so. Lo scudetto è una cosa così immensa che non posso immaginare come avrei reagito, mentre, per il resto della gara, qualche idea ce l’ho. Però quel triplice fischio, l’attesa della fine a Perugia, il boato…davvero, non lo so. So solo che non me lo sarei mai dimenticato.
Una cosa la so, però. La so perché tutte le volte che abbiamo raggiunto un traguardo l’ho pensata: “Vi prego, non invadete”. Quando prima ho detto che il Comunale è stato da manuale anche dopo la gara è a causa della mancata invasione. Odio quando si invade troppo presto, i giocatori scappano e non possiamo esultare insieme per una gioia attesa da tanto. Quella volta il popolo granata diede prova di grande maturità, complice un comunicato che chiedeva espressamente di non balzare sul terreno di gioco se fosse finita come tutti si sperava per godere il momento con gli eroi che l’avevano reso tale, fra giri di campo e applausi. Non si invade e grazie a questo abbiamo una serie di interviste a caldo, sul terreno di gioco, davvero mitiche.
C’è quella storica di Frajese a un Radice ancora in trance agonistica e più furente per il gol preso che felice per lo scudetto: forse non si rendeva ancora conto di aver vinto per davvero. C’è Castellini in lacrime, stravolto dall’emozione, che ci dedica il successo. Ci sono Zaccarelli e Claudio Sala che sono soddisfatti, ma sobri, quasi freschi, come se avessero fatto una passeggiata in centro, invece di una battaglia conclusa con un traguardo enorme. C’è Castellotti che intervista Pat Sala dandogli del lei, col mediano granata che non trova le parole, per il semplice motivo (vedi Ormezzano sopra) che non si possono trovare. E poi c’è Pianelli. Ecco, se dovessi scegliere un’immagine di quel giorno è Pianelli intervistato ancora da Frajese che ricorda al Presidente come, fino a poco prima, dicesse di non credere allo scudetto. La risposta di Pianelli, con la voce rotta dell’emozione, è che lo faceva per scaramanzia, ma purtroppo, per le beffe subite in precedenza, non poteva sbilanciarsi. Tendenzialmente, in quell’istante, inizio a piangere.
Le immagini di Radice portato in trionfo sbiadiscono, svanisce anche l’illusione di esserci stato, ma quello scudo è una dannata realtà e chi ha permesso di conquistarlo è e sarà sempre uno di noi. Non può essere altrimenti, lo percepisci quando sfogli il magnifico libro scritto dall’altrettanto magnifico Pecci, lo senti quando, per caso, si ha la fortuna di incrociare qualcuno di loro a Torino e, vinta la timidezza, ci si avvicina per una foto o un autografo. Ci hanno regalato la cosa più grande che potevano e nel modo più bello possibile. E allora, per quanto, ovviamente, esserci sarebbe stato stupendo, chi è venuto dopo non si sente escluso da quella festa, da quel pomeriggio, da quella giornata ed è questo il bello di quella squadra: ha vinto un campionato quasi quarant’anni fa e, al tempo stesso, ce lo fa sentire ancora vicino, ancora attuale. Forse perché, e scusate la retorica, essere del Toro, avere nelle vene quel sangue, alla fine riesce a farti vincere lo scudetto tutti i giorni.
Grazie ragazzi, vi voglio tanto bene.