Lavorare su turni e seguire la squadra del cuore è difficile. Bisogna cercare di far combaciare tutto, muoversi in anticipo, saper prevedere le bizze del calendario, affidarsi all’istinto, ma, dopo un certo numero di anni, posso dire di aver raggiunto un’abilità tale che, grazie anche a un pizzico di fortuna, mi ha fatto perdere un numero risibile di partite. Certo, non c’è solo il lavoro, c’è anche la famiglia, la vita sociale. E allora la cosa si complica: scegliere di andare via un weekend è operazione da effettuarsi esclusivamente durante le soste per la nazionale, ricevere l’invito a una cerimonia produce l’automatismo di guardare subito il calendario e pregare che “Cesena in casa” possa essere una giustificazione di assenza accettata. Poi, ogni tanto, capita qualche intoppo e ti ritrovi, magari, lontano dall’Italia, mentre i ragazzi giocano. Come, per esempio, quando programmi con largo anticipo due giorni a Berlino, ti fidi “dell’internet” sulle soste della stagione successiva e ti ritrovi in Germania mentre il Toro affronta la Samp a Marassi (per la cronaca, ti saresti dovuto fare la trasferta), perché il sito aveva sbagliato. E ti senti anche colpevole del fatto che si sia perso 2-0 per la solita storia del solito effetto farfalla raccontato da Bradbury. Oppure come quando, storia recentissima, la Lega ti sposta Toro-Empoli all’ultimo momento e tu quel giorno sei a Londra e il tuo benvenuto nella meravigliosa City è un sms di Steo che ti descrive l’autogol di Padelli.

La terza volta in cui sono stato lontano migliaia di chilometri dal Toro in campo, però, ha avuto un esito migliore e va raccontata. Stavolta nessun errore o spostamento della Lega all’ultimo minuto: per andare New York nel periodo natalizio, ospitati dai parenti di Sabrina, il biglietto meno caro presupponeva essere negli States il giorno di Toro-Chievo del 22 dicembre 2012. Sì, esatto, un giorno dopo quella che, interpretando ad minchiam una cosiddetta profezia Maya, era stata dipinta come la data della fine del mondo, scatenando i peggiori cialtroni e distributori di terrore a scopo di lucro per tutto l’anno. Il mondo non è finito, anche perché non può finire finchè c’è il Toro che è la sua cosa più bella, ma questa è un’altra storia.

La cosa più straniante del seguire una giornata di campionato dall’altra parte dell’oceano è il fuso orario. Mi alzo alle sette e mezza di mattina e c’è già l’anticipo delle 12,30 su Rai International, Inter-Genoa 1-1.  Ha, comunque, qualcosa di godurioso la partita mentre fai colazione e così mi godo Immobile segnare un gran gol, antipasto di quelli che farà con la nostra maglia, seguito dal gesto che incrinerà per sempre il rapporto coi tifosi rossoblù, poi Cambiasso che pareggia e Livaja che, a tempo scaduto, sbaglia un gol da amputazione del piede.

Poi è la volta della Giostra del Gol. Io la Giostra del Gol l’ho già vista. L’ho vista il giorno in cui, ad Ascoli, il Toro di Ventura iniziava la sua avventura nel campionato di B. Mediaset stava per acquisire i diritti della serie cadetta, ma in ritardo sull’avvio di stagione e mi sono buttato sullo streaming, trovando questa splendida chicca. Partita principale della giornata seguita in diretta, parterre de roi in studio (tipo Tony Santagata) e interruzioni in caso di gol annunciate dal finale dell’overture di Guglielmo Tell.  Ricordo i primi 20’ da incubo: noi che ci mangiamo gol a ripetizione, Andelkovic che ci purga, ogni venti secondi sto cacchio di peppereppè perché stava segnando chiunque, anche il Collegno che non stava giocando. Poi arriva il trionfo: una prova enorme, il pareggio di Bianchi su rigore conquistato da Verdi, il 2-1 di Odu nel finale con me che corro, sudatissimo, in mutande per casa. Belle immagini.

Stavolta la partita principale è un Siena-Napoli di rara bruttezza. Mi siedo davanti alla tv aspettando un perepepè e sperando che sia quello buono. Il perepepè arriva. Ed è quello buono. C’è Glik che sorride ed è sempre bello vedere Glik che sorride, anche perché, se interrompono, non sta sorridendo perché qualcuno gli detto che è ben pettinato, ma perché abbiamo segnato. Kamil è alla prima in casa dopo il vergognoso linciaggio mediatico subito per il fallo di Giaccherini nel derby, portato avanti da minus habens che, quando Chiellini fa interventi ben peggiori, tacciono e ora descrivono il polacco come il mostro di Milwaukee. Una di quelle cose che mi ancora nascere dentro un’incazzatura pazzesca a distanza di anni, roba che spaccherei tutto, perché a Glik voglio bene come ai miei parenti, anzi, anche più che ad alcuni di loro. Glik sorride, perché ha segnato lui. O meglio, mi sembra che abbia segnato lui, perché lui dice di no, invece di ascriversi la rete ed esplodere di gioia isterica dopo quello che ha passato, è il primo a confermare a gesti di non averla toccata. Quel sorriso e quel gesto genuino sono il primo mattoncino per farlo diventare il Capitano. E, comunque, siamo in vantaggio al 12’.

Neanche dieci minuti, in cui Siena-Napoli si conferma di una noia disarmante, e arriva un’altra strombettata e l’immagine nel riquadro è chiara: ci siamo di nuovo noi che esultiamo.  Cerci va via sulla destra, crossa basso, Gazzi tira (bene) dal limite, deviazione e rete. Il gol è, comunque, tutto del “rosso”, un altro dei miei beniamini. L’ho visto in giro per Torino il Primo Maggio e, memore dell’insegnamento di Umberto Tozzi (“Primo Maggio, su coraggio”), ho vinto la mia proverbiale timidezza e sono andato a rompergli le balle per fare una foto che non ho avuto il coraggio di mettere su Facebook, perché sono venuto col triplo mento, ma che rimane un bellissimo ricordo. E niente, 2-0, due dei miei giocatori preferiti grandi protagonisti, sono felice.

A quel punto, forse perché sono dall’altra parte dell’oceano, mi rilasso, sento che è fatta, che il Chievo è battuto, che tre punti fondamentali per la salvezza sono in tasca. In genere non mi rilasso mai, a meno che non si sia sopra di tre o più. Quella volta sì, sarà la distanza, saranno i messaggi di Stefano che dicono che giochiamo bene, ma abbiamo già vinto con un’ora e passa ancora da giocare. La realtà sostiene la mia sensazione, soprattutto nella ripresa, dove, a tratti, si vede anche un discreto spettacolo: Cerci rischia di staccare la testa a un difensore clivense con un fantastico sinistro, Sansone mette a lato di poco dopo una splendida azione corale. Poi, arriva il 76’ e con esso quello che, in gergo, si definisce momento catartico.

Al 76’ entra Di Michele, di cui non abbiamo esattamente un buon ricordo. Sms di Stefano “Entra DDM, gli stiamo dicendo di tutto”. Uno stadio intero dimentica eventuali divisioni e urla tutto quanto la stessa cosa, invitando il nostro ex a fare un determinato tipo di scommessa. Un popolo urla la rabbia per essere stato tradito e per aver visto la nostra fascia sul suo braccio, uno dei meno adatti ad averla portata. L’urlo è gigante, sembra travalicare le acque, sembra arrivare anche a New York, sui tabelloni di Times Square, sulla punta del Empire State Building. Giusto così.

Finisce 2-0, sono contento, le vacanze sono stupende, Natale si avvicina, ma c’è una piccola malinconia, un granellino nell’ingranaggio. Mi manca uscire dallo stadio dopo una vittoria, come staranno facendo Stefano, Mimmo e gli altri, magari dopo aver augurato “Buon Natale” ai gobbi. Mi mancano le risate verso la macchina e vedere chi ha una sciarpa come la tua col volto disteso, che si esalta come se avessimo battuto il Barcellona o che trova comunque qualcosa di cui brontolare. E allora bisogna cercare di esserci sempre, il più possibile, facendo i salti mortali tra lavoro e impegni, perché il posto dell’anima è dove giochiamo noi. 


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