Ho scritto questo racconto pensando i ragazzi e alle ragazze che oggi hanno tra i 20 e i 25 anni, la stessa età che io avevo allora. Auguro a tutti loro di vivere, almeno una volta nella vita, una giornata così.
È una sera di inizio settimana e sono solo in casa. Ho cenato con il TG3 e ho visto pure il Nazionale sulla Sette. Non so cosa ci sia stasera in Tv, ma mi va di fare un po’ di zapping e gira che ti rigira, capito sul canale 57 di Rai Sport, dove danno una partita di calcio. Il primo colpo d’occhio è sugli spalti, con poca gente, ma non pochissima. Non è una gara di serie A, ma più che le squadre o i commenti dei telecronisti mi colpisce quello scorcio di stadio. Mi è familiare, lo conosco, o, meglio, mi dice qualcosa. In tanti anni, da tifoso prima e da giornalista poi, ho seguito il Toro in po’ dappertutto. Solo in Italia, ho visto i nostri ragazzi giocare in più di sessanta stadi diversi e li ricordo tutti. E in questo campo – penso – io ci sono stato.
Mi concentro sulle voci dei commentatori, ma non mi aiutano. In un angolo del televisore compare in sovrimpressione la scritta “SP – REG 0-0”. Penso subito allo Spezia, che è in serie B, ma lo stadio Picco è diverso. Questo, invece, ha una curva coperta, una tribuna centrale e una gradinata di fronte, in un angolo della quale stanno i tifosi ospiti. Non vedo traccia della seconda curva, che invece è quella che mi dovrebbe dare indicazioni più precise su dove ci troviamo. Da una pubblicità a bordo campo comprendo che siamo in Emilia e, se il lunedì sera ci sono tifosi ospiti sugli spalti, deve essere un derby regionale, o una partita con distanze chilometriche non elevate. Battezzo gli ospiti come la Reggiana e, a questo punto, mi colpisco la fronte con una pacca, perché ho capito che siamo a Ferrara, in Lega Pro.
Lo stadio Paolo Mazza.ospita le partite della Spal ed è uno degli impianti calcistici più vecchi d’Italia. Inaugurato nel 1928, ha subito numerose modifiche, arrivando a ospitare fino a 25 mila spettatori negli anni ’50. Attualmente, per ragioni di sicurezza, ne può tenere solo settemila e la curva che cercavo io non esiste più. In maglia spallina ha giocato gente che ha poi fatto parte della storia del calcio, come Armando Picchi, Fabio Capello e Albertino Bigon, senza contare i nostri Carlo Facchin e Gianni Bui.
Alcuni passaggi delle vicende della Spal ricordano, fatte le debite proporzioni, quelle del Toro. Il 1907 è l’anno di fondazione ed è appena dodici mesi successivo al nostro. Ma penso soprattutto al fallimento e alla rifondazione con il lodo Petrucci del 2005, che contraddistinguono entrambe le società in quell’anno, anche se i ferraresi falliranno ancora nel 2012, per risorgere con la dizione attuale di Spal 2013. Certo, il blasone è ben differente, visto che la società emiliana vanta solo sedici presenze in serie A, con un record del quinto posto nella stagione 1959/60, anno nel quale quella squadra era più forte della nostra, che vinceva il campionato di B dopo la prima retrocessione della sua storia.
Guardo la partita in TV e ricordo bene quel giorno di trentaquattro anni fa, quando mi alzai all’alba per seguire il mio Toro, da semplice tifoso.
Solo poche ore prima ero uscito dalla scuola paritaria dove tenevo lezione per otto ore alla settimana, per racimolare qualche soldino e mettere punti in graduatoria per arrivare all’agognato incarico statale. Un salto a casa per un piatto di pasta e via al Giornale di Moncalieri per quei trequattro pezzi relativi allo sport del fine settimana che toccavano a me. Due telefonate agli amici, un salto in università e alla sera il concerto di Roberto Vecchioni al Teatro Alfieri. Era la terza volta che andavo a vederlo dal vivo e so dire ancora oggi di preciso che cosa cantò quella sera. Furono diciassette brani: Carnival, Città senza donne, Canzone per Sergio, Robinson, Montecristo,
Ciondolo, L’anno che è venuto, Canzone da lontano, Vorrei, Signor Giudice, Madre, Mi manchi,
Figlia, Luci a San Siro, Stranamore, Samarcanda, Ninni, oltre all’immancabile bis, A te.
Quel concerto mi aveva tenuto la mente occupata durante il lungo viaggio di avvicinamento a
Ferrara. La partenza era stata presto, ma non prestissimo, con il treno delle 7.40 dalla stazione di
Porta Nuova, poi cambio a Piacenza e arrivo a Bologna alle 12.37. Quelle prime cinque ore mi
erano passate, non tanto pensando al Toro o al motivo per cui avevo deciso di fare la trasferta, ma soprattutto meditando sui testi e sui significati che si potevano leggere tra le righe cantate da Vecchioni.
Pensavo al mito di Robinson Crusoe, a quest’uomo che vive da solo nella natura, lontano da una realtà urbana che detestava, ma che non fa altro che ricreare tutto ciò che ha sfuggito. E a quanti si reputano alternativi, ma non si accorgono neppure di essersi persi per strada e di essere diventati uguali, se non peggiori di quelli che prima criticavano.
E da lì giravo su Montecristo e pensavo a come sarebbe stata la mia vita futura. Mi sarebbero toccati anni e anni di matrimonio, una vita in famiglia indistinta giorno dopo giorno, piccoli compromessi usuali e schiavitù domestiche da farmi sentire prigioniero? O avrei avuto anche io lo spirito e la fortuna per vivere una storia d’amore bella, come quella dei miei genitori?
Ragionavo sugli anni che passano, che, nonostante il carico delle esperienze negative che possono portare, non rappresentano mai un punto fermo o una barriera invalicabile, bensì episodi della vita che possono arricchire, far parte di te e della tua crescita.
E pensavo a quell’uomo deluso, che decide di cambiare nome, volto, abitudini, vita e che crede di essere riuscito a ingannarsi, fino a quando riconosce il tintinnio di un ciondolo, il ricordo di un amore finito che lo riporta al punto di partenza.
A questo e altro pensavo, con la gioventù dei miei ventidue anni, mentre l’espresso sul quale viaggiavo entrava a Bologna Centrale. Avrei avuto da attendere cinquanta minuti, per poi saltare sul convoglio per Ferrara. La città degli Estensi mi aspettava e io non vedevo l’ora di conoscerla. Ero arrivato a Ferrara poco dopo le due del pomeriggio e la prima sorpresa che mi aveva accolto era lo sterminato parcheggio di biciclette nel piazzale della stazione. C’erano bici dappertutto, tra quelle ferme e quelle condotte da persone di ogni età, che le utilizzavano per spostarsi. Una civiltà ambientale dei trasporti da noi ancora sconosciuta, se si pensa che in quegli anni a Torino si circolava in auto dappertutto, perfino nel cortile di Palazzo Reale.
Mi ero goduto il primo pomeriggio passeggiando, raggiungendo velocemente il centro e ammirando gli esterni del Castello, per poi perdermi girovagando nel quartiere che si apre dietro il Palazzo Arcivescovile e la Cattedrale, fino a raggiungere i giardini sotto i Baluardi. A quel punto avevo già mangiato tre dei cinque panini che mi ero preparato per la giornata. Uno l’avevo addentato prima di Piacenza, altri due li avevo fatti secchi aspettando il cambio a Bologna. Ne rimanevano due, che avrei mangiato durante il viaggio di ritorno.
La partita di Coppa Italia tra Spal e Torino, valida per i quarti di finale di Coppa Italia, era in programma alle ore diciotto di quel mercoledì 18 marzo 1981. Avevo ancora un po’ di tempo prima di raggiungere lo stadio intitolato a Paolo Mazza, già allenatore e poi presidente della Società Polisportiva Ars et Labor, per tutti Spal. La Spal aveva una caratteristica maglia a righine bianche e azzurre, davvero originale tra le tante divise dell’epoca, colori dovuti al fondatore della società, un sacerdote salesiano che aveva voluto riproporre gli stessi effetti dello stemma della congregazione. Una squadra che mi stava simpatica, di una simpatia naturale, proprio per via di quella maglia e del passato glorioso del casato, anche se non era per quel motivo che avevo affrontato la trasferta. In attesa dell’ora giusta per raggiungere lo stadio mi ero seduto su una panchina nella zona verde e avevo tirato fuori l’agenda per fare due conti.
Il biglietto del treno mi era costato davvero poco. In quegli anni, pagando la quota associativa, i giornalisti avevano diritto ad una tessera sconto sui voli e ad un carnet di otto o dieci biglietti ferroviari chilometrici all’anno, fortemente scontati, che potevi compilare a tuo piacimento, validi ciascuno venti giorni dalla prima timbratura. Lo sconto era circa del 70% e la parte divertente stava nel costruirsi itinerari lunghi, che avresti coperto in più viaggi successivi, risparmiando parecchio. Inorgoglito dal mio fresco tesserino da pubblicista avevo già coperto il viaggio di andata fino a Bologna grazie ad un biglietto di 666 chilometri, che avevo inaugurato l’8 marzo per tornare da Pisa a Torino. Era un biglietto di seconda classe Pisa-Bologna, via Genova-Alessandria-TorinoAlessandria-Piacenza, che aveva concluso la sua corsa oggi a Bologna Centrale e che avevo già contabilizzato dieci giorni fa per 5200 lire, anziché le 17300 che sarebbe costato a tariffa piena.
Quindi, oggi avevo speso solo 1300 lire per la tratta Bologna-Ferrara a prezzo pieno, mentre per il ritorno avevo compilato un nuovo itinerario avveniristico di 609 chilometri Ferrara-Firenze, via Bologna-Piacenza-Alessandria-Genova-Pisa, che mi avrebbe riportato a casa e, tra due settimane, a vedere Fiorentina-Torino. Questo secondo biglietto mi era costato 4700 lire e mi avrebbe coperto due mezze trasferte. Era rimasta scoperta la tratta di questa notte tra Alessandria e Torino, ma lì, con tutta probabilità, il controllore non sarebbe passato a cercare proprio me a quell’ora.
Avevo segnato le spese della settimana e controllato le entrate. Il concerto mi era costato 4500 lire e la trasferta di oggi, biglietto di curva, panini e treno compreso, mi sarebbe costata in tutto 13600 lire. La scuola privata mi fruttava 3700 lire per ogni ora di lezione e, con un po’ di fortuna, con tutto quello che stavo scrivendo sul Giornale a fine mese avrei preso 45-50 mila lire per l’ultimo trimestre. Avevo chiuso l’agenda soddisfatto, calcolando che il gruzzoletto che avevo messo da parte ammontava a 630 mila lire, una bella cifretta per quei tempi, per uno che studiava e che si arrangiava con qualche lavoretto.
Ma era finalmente giunta l’ora di occuparsi della partita. Ero quasi stupito di non aver ancora avvertito la consueta scarica di adrenalina che di solito mi dava l’attesa della gara del Toro. Questa 29^ trasferta della mia vita, però, si configurava del tutto diversa a tutte le altre. Ero solo e non avrei trovato certamente nessun altro fratello da Torino, perché se ce ne fossero stati avrebbero preso il mio stesso treno, in quanto nessun club aveva organizzato il pulmann. Quindi non avevo fretta di arrivare allo stadio per vivere il prepartita fatto dei consueti cori e sfottò e l’unica preoccupazione era stata quella di capire in anticipo quale fosse il mio settore, quando avevo fatto il biglietto n. 006464 in Curva Popolare Est, così come recitava il tagliando che avevo comprato venendo in centro città. Con una rapida passeggiata ero rientrato per via Ripagrande, che, dopo l’incrocio con corso Isonzo, si sarebbe chiamata corso Piave, dove si sarebbe materializzato lo stadio. La curva est era risultata facilmente riconoscibile, non tanto per la dislocazione geografica, ma soprattutto perché visivamente più piccola della ovest, sede dei più caldi sostenitori locali. Ero entrato ad un quarto d’ora dall’inizio della partita e, a quei tempi, il terreno di gara era vuoto, in quanto i giocatori non facevano lì il riscaldamento pre-gara. Quindi, in attesa di conoscere con quale formazione saremmo scesi in campo, mi ero concentrato a cercare se fossero presenti altri fratelli di fede granata. In curva est c’ero solo io, con la mia sciarpa al collo, a meno che ci fosse qualcuno che non mostrava segni di riconoscimento. Mi ero allora girato a scrutare la tribuna e avevo intravisto una ragazza con la sciarpa e un uomo con i nostri colori nel parterre. Nessun altro.
Pazienza – mi ero detto – non sono venuto qui per questo. La partita si può guardare e vivere anche da soli.
Poi erano entrate le squadre e lo speaker aveva letto le formazioni. Avremmo giocato con Copparoni, Cuttone, Volpati; Patrizio Sala, Danova, Van De Korput; D’Amico, Pecci, Graziani, Sclosa, Pulici. In panchina c’era Cazzaniga.
Quella era la prima stagione dopo l’esonero di Radice e inizialmente era toccato a Rabitti guidare la squadra, continuando l’esperienza iniziata alla 20^ giornata del campionato precedente. Le aspettative di tutti erano elevate e Rabitti, che era un mago con i giovani, non aveva evidentemente lo stesso carisma con i giocatori affermati. Così, a inizio marzo, nuovamente al ventesimo turno, gli era subentrato il nostro ex portiere, grande uomo spogliatoio, ma rimasto nella memoria più per essere volato da una finestra che per le prodezze a difesa della porta. Mi piaceva immaginare che, quel giorno, Cazzaniga fosse volato per un maldestro tentativo di gavettone a un compagno, o per qualche causa ignota e ancora più buffa.
Quel mercoledì l’avvenimento calcistico più atteso era sicuramente la Coppa dei Campioni, con l’Inter che avrebbe vinto a Belgrado, garantendosi la semifinale insieme a Real Madrid, Liverpool e Bayern. Erano tempi in cui il calcio italiano spopolava anche all’estero, gli stessi tempi nei quali i giudici di Catanzaro assolvevano per insufficienza di prove dal reato di strage i principali imputati dell’attentato di piazza Fontana, lasciando ai soli Freda e Ventura una condanna minore per associazione sovversiva.
A Ferrara la partita era parecchio sentita, di cartello, al punto che sugli spalti erano presenti oltre diecimila spettatori, nel pomeriggio di una giornata feriale. Ma quel Toro era stretto parente di quello dello scudetto del ’76 e della successiva stagione da cinquanta punti, anche se buona parte degli interpreti si era persa, o stava invecchiando troppo precocemente. Tutti noi non riuscivamo a farcene una ragione e continuavamo a confidare che la squadra tornasse ad essere la migliore di tutte, come lo era stata pochi anni prima, ma poco per volta l’ambiente si era fatto sempre più esigente, al punto che la stampa, a metà marzo, già considerava la stagione fallimentare. E dire che parliamo di un Toro che aveva raggiunto gli ottavi di finale in Coppa Uefa, l’attuale Europa League, uscendo ai rigori contro il Grasshoppers, e che in campionato era al quinto posto. Poi c’era la Coppa Italia, che poteva ancora dare le sue soddisfazioni, e che ci avrebbe portato dritto dritto alla doppia finale persa (di nuovo!) ai rigori con la Roma.
La partita con la Spal stava scivolando via veloce, anche se senza grossi squilli di tromba. All’inizio del secondo tempo, sullo 0-0, Cazzaniga aveva provato ad aumentare la spinta offensiva tentando la carta delle tre punte e aveva sostituto D’Amico con Mariani. D’Amico era estroso ed era stato un beniamino della Lazio. Pianelli lo aveva preso confidando di poter sostituire Claudio Sala, passato al Genoa, ma anche Vincenzo era ormai al termine della carriera e le giocate di fino erano diventate rare. Orfeo pensava di aver acquistato un protagonista, invece si ritrovava qualcosa di simile all’attuale commentatore Rai di Novantesimo Minuto di serie B, che non si sa bene che cosa ci stia a fare, visto che non si ricordano sue opinioni davvero memorabili.
La sostituzione non aveva prodotto gli effetti sperati e nel finale del secondo tempo l’arbitro aveva assegnato un rigore alla Spal, che Ferrari aveva realizzato, decretando il successo dei padroni di casa per 1-0. In quella giornata si giocavano anche le altre gare valide per l’andata dei quarti di finale: i gobbi avrebbero vinto ad Avellino, la Roma a Firenze e il Bologna a Roma con la Lazio. Tutte vittorie in trasferta, tranne la nostra, ma ci saremmo presi la rivincita la settimana successiva, strapazzandoli per quattro a zero nella gara di ritorno.
La partita era terminata, noi avevamo perso e a me era restato pochissimo tempo per correre in stazione a prendere l’unico treno che avrebbe potuto garantirmi il rientro durante la notte. Avrei dovuto assolutamente salire sull’accelerato in partenza alle 20.04 per Bologna, dove, se fossi arrivato in orario, avrei potuto tentare di prendere l’ultima coincidenza per Torino, quella delle 21.12, con la quale sarei arrivato a casa entro le due. In caso contrario avrei dovuto improvvisare qualcosa su due piedi, ma l’unica soluzione immaginabile sarebbe stata quella di sonnecchiare da qualche parte a Bologna Centrale, in attesa del primo treno della mattina. Altri sarebbero usciti prima della fine, non io e non certo proprio quel giorno.
Al fischio finale di Mattei avevo rapidamente imboccato l’uscita, sapendo che mi sarebbero bastati dieci minuti di camminata veloce per assicurarmi il treno. Ero salito appena in tempo sulla carrozza più vicina, mi ero trovato uno scompartimento libero e mi ci ero seduto. Avevo scartato uno dei panini che mi erano rimasti e avevo cominciato ad addentarlo, mentre ripensavo alla situazione.
-continua-