C’è una donna, incatenata alla ringhiera, a due passi dalla galleria di un sottopassaggio per autoveicoli. Più che una catena è una corda, che scende da sopra, gira attorno al mancorrente e la circonda con un doppio giro di nodi. Non vive lì, ma ci passa la giornata, dal mattino alla sera. Poi qualcuno viene a prenderla e la riporta a casa, oppure ci va da sola, a dormire in qualche posto caldo. Non è una mendicante, non chiede niente a nessuno, non rivendica alcun tipo di attenzione. Non è malnutrita, né vestita male. Guardandola e immaginandola in un altro posto potrebbe essere una tua amica, o una collega di lavoro. Passando con la macchina non la noti proprio, perché la strada stringe leggermente e sei attento alla galleria, più che a quello che potresti vedere nella penombra. Puoi notare una sagoma, come è capitato a me, e incuriosirti. Ma se guardi nello specchietto retrovisore non trovi risposte. Allora ci passi di nuovo, guidando quasi a passo d’uomo, incurante delle ire di chi non ti può superare. E la vedi, scorgi una donna legata all’imbocco di un tunnel.
Quel giorno sei di fretta e in quel punto non ti puoi fermare. Decidi di tornarci con un briciolo di tempo disponibile, se non per capire, almeno per sapere. Lo fai qualche giorno dopo. Parcheggi in superficie e ti inoltri per la strada in discesa verso la galleria, radente al muro per non rischiare di farti travolgere. Là sotto, ad un soffio dalla caverna, c’è lei. Una donna senza età, né giovane né vecchia, che trasuda normalità da ogni lato tu la squadri, tranne che per la situazione. Saluti e chiedi se puoi fare qualcosa per lei. Ti risponde di non aver bisogno di nulla. Allora le domandi per quale motivo si sia legata in quel punto.
La donna ti guarda e ti racconta la storia di un uomo che occupava quello stesso posto prima di lei. Quel tipo aveva un allevamento di animali da cortile, polli, anatre, oche e simili, nella campagna a ridosso della città. Predatori e vandali di continuo gli squartavano gli animali e distruggevano le uova, fino a ridurlo sul lastrico. Disperato, prima si era incatenato, poi aveva appeso alla parete un cartellone con le fotografie delle sue disgrazie. Tanta gente gli aveva portato solidarietà, i giornali si erano occupati del caso e, oggi, quel tipo aveva risolto i suoi problemi. Aveva riaperto l’allevamento e i suoi prodotti erano commercializzati da uno chef di primo piano nell’alta ristorazione. Le chiedi quale sia la sua storia.
Quella alza appena le spalle e guarda di lato. Tu ti senti a disagio e non riesci a fare altro che salutarla, chiedendole se puoi tornare a trovarla. Lei ti sorride, stanca.
Due giorni dopo hai un invito per una degustazione di panettoni e di paste da forno lì vicino. Decidi di scendere a piedi per invitarla a lasciare, anche solo per pochi minuti, quel luogo malsano. Ti guarda e ti dice “non posso”.
“Come, non puoi?”.
“Non posso andar via da qui” ripete.
“Non puoi o non vuoi?”
“Non devo. Che cosa penserebbe la gente che non mi vede più?”.
“Guarda che qui non ti vede nessuno!” Poi rincari: ”tu riconosci quelli che sfrecciano in auto? Come tu non riconosci loro, altrettanto loro non vedono te”. Lei non ti ascolta.
“Tu sei il prof del Toro, vero? -cambia discorso- ti vedevo sempre in Tv e ti ascoltavo anche per radio”.
“Sei del Toro anche tu?” le chiedi.
“Lo ero”.
Ti lascia interdetto. Come sarebbe a dire “lo ero?”. Granata si è, non ne conosci che lo fossero e non lo sono più, a meno che siano passati a miglior vita. La cosa ti incuriosisce, anzi ti inquieta. Provi a indagare.
“Qual è l’ultima partita che ricordi?”.
Lei ci pensa un po’ su, poi risponde decisa “Toro – Mantova”.
“Quella della finale playoff per salire in A?”.
“Quale se no?”.
“C’eri allo stadio?”.
Un lampo in quegli occhi chiari.
“Ero in curva!”.
“Che cosa ricordi di quella sera?” la interroghi.
“L’emozione, la paura, la gioia. L’urlo della gente. Essere parte di qualcosa di grande”.
“Guarda che è ancora così. -le dici- Certo, non è sempre come quella sera, ma la squadra va bene, con i suoi alti e bassi e c’è ancora una bella atmosfera allo stadio. Rispetto ad allora abbiamo pure qualche bel calciatore che è un piacere veder giocare”.
La donna non ti ascolta già più. Non riesci a cavarle nient’altro. Non sai se ha un lavoro, un marito, dei figli. Non sai quale sia il suo dramma, la sua disperazione, i suoi punti interrogativi. Sai solo che è del Toro, come te. Là sotto ti senti improvvisamente inutile, invisibile, inadeguato.
Risali la china, lasciandola con le sue nebbie in quell’aria di piombo. Alla degustazione di panettoni non ci vai proprio. Quella sera, al sicuro della tua casa, al caldo della tua famiglia, pensi che potresti invitarla a vedere una partita con te, magari quella prima di Natale. Ti piacerebbe che ritrovasse almeno un po’ di quel calore che ha perso. Ma dentro di te sai già che non verrebbe. Ti direbbe ancora che non può, che non deve. Di che cosa ha bisogno questa donna? O sei tu ad aver bisogno di lei? Vorresti andare a cercarla ancora, ma temi di non avere le parole adatte. Chi può farlo? Chi sa farlo? Avendo le coordinate geografiche del sottopassaggio sarebbe più facile, ma chi si mettesse in strada a cercarla non è detto che la trovi. Non è facile da vedere, non la scorgi se non la cerchi davvero. Poi magari la trovi dove meno te l’aspetti. A due passi da casa tua, invisibile, ad un soffio dal buio.