di Franco Ossola – Si sale ancora una volta, insieme, al colle di Superga. Il pellegrinaggio che ci vede tutti uniti, noi che amiamo il Toro, è una meravigliosa forma di ricordo. Un modo faticoso, autentico, di dimostrare come non solo il cuore ma anche il corpo, il fisico, vuole esserci, per un omaggio palpabile, completo.

Un po’ quello che facevano, ogni domenica, i campioni del Grande Torino: tanto cuore, sempre, ma anche tanto impegno concreto, di muscoli e sudore, per vincere le partite e donare, una volta di più, un sorriso, largo e pieno, ai loro tifosi. Oggi, dopo 66 anni, non sono molti i testimoni consapevoli dell’epopea di Valentino e compagni, ma da quel 4 maggio 1949 ad ora, chi ha avuto la sorte di poterli vedere ha svolto bene il proprio compito, trasmettendo a chi è venuto dopo – vale a dire alla successiva generazione di tifosi granata – un testimone colmo di affetto e di riconoscenza.

Questi, credo, i due sentimenti che tutto sovrastano. Affetto per campioni che hanno riportato il nome del nostro paese all’onore del mondo con la semplice operazione di prendere a calci una palla di cuoio; riconoscenza, perché con le loro imprese, con la loro dedizione, con il loro attaccamento alla bandiera granata hanno coagulato attorno alla loro incredibile storia di eroi moderni, un meraviglioso miscuglio di moti dell’anima e del cuore, creato un amalgama che ha saputo, e sa, tenerci insieme anche nei momenti meno felici.

Alcuni continuano a ripetere che, per quanto doveroso ricordare, farlo nel modo viscerale, profondo, in cui (grazie al cielo, dico io) continua ad avvenire presso il popolo granata è fuori luogo: bene il 4 maggio, ma poi stop, si deve guardare avanti, puntare il futuro, senza più slabbrare forze e pensieri tornando continuamente indietro. Ipotesi logica, ma non condivisibile. Chi ha il Toro nel cuore non potrà mai far finta che il 4 maggio sia solo un giorno, per quanto drammatico, della sua storia; continuerà a sentirsi sorretto, sostenuto da questa data ogni giorno, in ogni momento della sua militanza in granata.
Ho sempre immaginato Superga, e il Grande Torino che lì si immolò, come una sorta di àncora, un punto fermo che si erge, brillante e lucido, faro di speranza, nel pelago delle cose della vita e, in questo caso, della vita di un club calcistico e di quella dei suoi supporter. E questo mi sembra un miracolo, perché, a ben pensarci, trovare forza e convinzione da un momento di morte, da una storia così tragica, è davvero qualcosa di speciale.

Ma il Grande Torino ci ha abituati a questo genere di cose. Incontrare bambini piccoli che recitano a memoria, come una poesiola, la formazione dei Campionssimi è grandioso; parlare con giovani ansiosi di conoscere la loro storia è bellissimo; sedersi accanto a chi li ha visti giocare per farsi raccontare un episodio, una partita,è un fremito, un momento di commozione autentica.

Un po’ come se il dramma fosse accaduto ieri e non 66 anni or sono, tanto è fresco, vitale, forte, il senso che di esso è impregnata la vita di uno che vuole bene al Torino. Il passato e il presente si incrociano sempre. Si tratta di strade all’infinito. Bisogna essere presuntuosi per non capire che nulla succede invano su queste strade.

E dunque saliremo di nuovo tutti insieme, nella gioia del bel momento che la squadra sta vivendo, ma anche nella mestizia di un ricordo struggente. Una miscela di emozioni, come sempre; un nodo alla gola davanti alla lapide quando il capitano leggerà i nomi, un mesto pensiero, una preghiera in chiesa, ma anche una sorta di fiera appartenenza, un sentimento di gioia per “essere del Toro”, quella speciale condizione che non è comprensibile se non da chi con te la condivide.
In alto i cuori, amici del Toro: siamo fortunati.


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