Sono stato indeciso se scrivere o meno un Graffito in cui il Toro c’è, ma resta sullo sfondo. Poi ho pensato a uno dei fumetti italiani più belli di sempre, Ken Parker. In un episodio, “Adah”, Ken ha un ruolo marginale, entra in gioco a metà narrazione, finendo per non essere il protagonista dell’episodio, pur compiendo azioni importanti. Inutile dire che, anche per questa scelta inusuale, si tratta di uno dei capolavori della serie. Allora ho finito con l’optare per questo Graffito un po’ diverso, dove il colore granata dimostra di saper accompagnare un racconto, senza essere primo attore, ma finendo per comparire sempre quando c’è da raccontare una storia intensa.

 

Un uomo esce dal campo a testa bassa, mentre uno stadio intero fischia. Quel giorno la squadra di cui è capitano ha fatto il suo dovere, ma non è bastato, perché il tabellone non ha regalato la notizia che tutti speravano e il tunnel degli spogliatoi diventa il baratro per la B. Un cordone di polizia si sta avvicinando al pubblico furente per scongiurare eventuali invasioni di campo. Poi, all’improvviso, un urlo. La gente grida, ci sono facce incredule, sull’orlo di un collasso. La notizia tanto attesa è arrivata, quasi fuori tempo massimo, ma è arrivata. L’uomo sente il boato e, senza neanche pensarci, torna indietro. Torna in campo. Corre. Corre mulinando le braccia e saltando per aria. Corre e va sotto la curva, quella curva che fino a un secondo prima era in ginocchio  e ora è risorta, appesa al sottile filo dello spareggio. L’uomo va a un millimetro dalle recinzioni, picchia su un cartellone pubblicitario una, due, tre volte, poi crolla in ginocchio e mentre viene sommerso da addetti al campo e tifosi comincia a piangere, un pianto di rabbia, una rabbia lunga un anno, un anno di sofferenza, un anno maledetto. Rimane a terra a lungo, come se stesse pregando verso la Mecca, poi si rialza, con le mani che non si staccano dal volto e torna negli spogliatoi camminando come un automa, mentre ogni passo che fa è una pacca sulla spalla, dando la schiena alla Nord sotto la quale ha giocato per l’ultima volta.

 

Un uomo entra in campo, guarda la curva, la sua curva, perché è rimasta sua anche dopo tanti anni. Vorrebbe parlare, ma non può. Vorrebbe alzarsi a correre, ma non può. Vorrebbe battere le mani, ma non può. E’ come in quei sogni in cui non ci si riesce a muovere e per liberarsi da quell’orrenda sensazione si urla, si urla per svegliarsi. Ma non è un sogno e l’uomo non può urlare, intrappolato in un corpo che una volta lo faceva correre su quell’erba, mentre ora è una prigione. L’uomo non può fare quello che vorrebbe e così, mentre lo stadio acclama il suo nome, fa l’unica cosa che gli è permessa in quel momento: piange. Non è più il pianto di rabbia di qualche anno prima. E’ un pianto di dolore, un dolore che urla vendetta al cielo, un dolore da non augurare neanche al peggiore dei nemici. I figli dell’uomo indossano la maglia che fu sua, spingono la carrozzina su cui è costretto, la figlia legge un messaggio scritto dall’uomo grazie all’aiuto di un computer e in quel momento non è solo più l’uomo, ma tutta Marassi, che è venuta lì per lui, a piangere disperata.

 

L’uomo è Gianluca Signorini, capitano del Genoa di inizio anni ’90. L’uomo per cui Scoglio disse “Datemi Signorini e andiamo in A con 50 punti” (e saranno 51). L’uomo che Sacchi usava come esempio per far imparare a Baresi i movimenti che avrebbe dovuto fare. L’uomo che, con la fascia al braccio, ha guidato il Genoa a salvezze sofferte e a imprese europee. L’uomo che, dopo un durissimo alterco fra supporters rossoblù e stampa a Pegli, disse che i tifosi hanno ragione, perché pagano e senza di loro non ci sarebbe lavoro né per i giocatori, né per la stampa. Inutile dire che lo adoravo, anche se il Toro, ai tempi, era ben fornito di liberi (Cravero prima, Fusi poi). Signorini era uno da Toro o forse il Toro era una squadra da Signorini, poca importa.
Una domenica di inizio giugno 1995 un Toro senza nulla da chiedere al campionato scende a Genova per l’ultima gara della stagione. Partito fra mille dubbi, e con un sacco di giocatori nuovi, la squadra di Sonetti ha regalato una bella stagione ai suoi tifosi, con lo zenit dei due derby vinti e la carezza a un sogno europeo, sfuggito dopo un prevedibile calo. Il Genoa, invece, deve vincere e sperare che il Padova perda nella San Siro nerazzurra per agguantare lo spareggio coi veneti, altrimenti sarà retrocessione, al termine di una stagione drammatica, in cui ha cambiato tre allenatore e col momento più doloroso il giorno della morte del povero Vincenzo Spagnolo.

 

Il gol di Milito, il settore ospiti festante, il resto dello stadio furibondo e un gemellaggio che si incrina e che oggi divide fra chi vorrebbe recuperarlo e chi no sono cose lontane. I genoani sono ancora fratelli e spero che si salvino. Il Genoa gioca tre partite: la più facile è contro di noi, le più complicate sono quelle contro il buio che ha nell’anima e contro il tabellone. Per questo ci mette quasi 50’ a sbloccare il risultato con un colpo di testa di Skuhravy. Poi un’attesa che, man mano che passano i minuti sembra vana, fino alla gioia fuori tempo massimo, con le squadre già negli spogliatoi e Signorini che torna in campo in trance agonistica, mai capitano come in quel momento, in una scena videoregistrata e vista e rivista tante volte. L’essere capitano vero è tutto in quei secondi.

 

Poi arriva lo spareggio col Padova e anche qui l’aggettivo drammatico non è usato a vanvera: le coronarie di tre tifosi genoani (due allo stadio, uno davanti alla tv) non reggono. Sul campo è 1-1 con Spagnulo che salva in tutti i modi la propria porta. La guardo con amici, faccio un tifo indiavolato, ai rigori quando Coppola sbaglia penso che sia fatta. Ma poi arriva l’errore di Marcolin, la serie che prosegue a oltranza, Galante che calcia in orbita, Kreek che non fallisce, la festa da una parte con Lalas che avvolge la statuetta di Sant’Antonio con la bandiera americana, il dramma dall’altra con una tradizione centenaria che deve subire un’altra onta. La corsa di Signorini che, nonostante il risultato, resta un emblema. Il capitano che saluta, come già preventivato, e va a riportare il Pisa fra i professionisti.

 

Se il finale sul campo è amaro, per quello fuori non ci sono aggettivi. Quando succede qualcosa di grave a un calciatore, a un tifoso spiace sempre, perché, anche se non ha giocato nella sua squadra, ha contribuito a prendere in ostaggio il suo cuore e la sua testa per tantissime domeniche. E la sla è una delle cose più terribili che possano succedere: una malattia degenerativa che ti mangia i muscoli, i movimenti, le parole, la vita e anche se hai la fascia al braccio quasi incorporata e un  coraggio da leone nell’affrontarla, alla fine perderai. Lo sa anche Borgonovo, che, per una di quelle assurde coincidenze della vita è nato il 17 marzo proprio come Signorini, dovrà affrontare quella che lui chiamerà “la stronza”.

 

Il 24 maggio 2001 il Genoa organizza una partita in onore Signorini. La scena del Capitano in campo, come scritto, commuove tutti, come quella del figlio Andrea che, durante la gara, segna sotto la Nord e viene portato da Nappi e dal povero Franco Rotella, anch’egli scomparso qualche anno fa, ad abbracciare il padre a bordo campo. Rotella che indugia ancora un attimo ad abbracciare il suo capitano mentre gli altri tornano a giocare è un altro momento forte. Rimbombano le parole lette dalla figlia Benedetta, prima della gara:

 

“Vorrei alzarmi e correre con voi, ma non posso.


Vorrei urlare con voi tifosi canti di gioia, ma non posso.


Vorrei che questo fosse un sogno dal quale svegliarmi,
magari felice, ma non lo è.


Vorrei che la mia vita riprendesse da dove si è fermata.


Voglio dirvi grazie per tutte le manifestazioni di affetto che mi avete dimostrato.
Voglio ringraziarvi per aver aderito al mio appello di solidarietà.

Voglio ringraziare chi ha reso possibile tutto questo, i miei vecchi compagni, i mister e voi tifosi, con i quali ho trascorso sette splendidi anni indimenticabili.


Vi voglio bene”.

 

Firmato Gianluca, il Capitano.


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