Esclusiva / Nestor Combin parla del suo passato nel Toro e di quel rapporto speciale con Meroni: “Un’emozione segnare quella tripletta”

Quando hai la sensazione di parlare con delle persone, prima ancora che dei calciatori. Con degli uomini che hanno vissuto nel calcio, che hanno fatto la storia del calcio e del Toro, e che grazie al calcio sono riusciti a costruire una loro vita, e delle splendide amicizie. Quando parla di Luigi Meroni, si commuove. Chiede anche scusa, come se fosse un problema. Ma non lo è: si tratta solo dello specchio di una sincerità nobile, che racchiude forse anche quell’essenza da Toro che può apparentemente sembrare retorica, ma che chi la conosce sa quanto, in verità, non lo sia. Nestor Combin, la “Foudre” (folgore), 74 anni, non ha bisogno di presentazioni. Brevissimamente, fu lui a onorare la memoria di Meroni appena scomparso, segnando una magica tripletta nel derby. Ma Combin è anche moltissimo altro, e in esclusiva per Toro.it racconta con un italiano perfetto la sua storia di calciatore, in granata e non solo, con una passione che, dopo tanti anni, non si è minimamente sopita.

Lo sa, vero, che nel cuore dei tifosi del Toro ha lasciato un ricordo indelebile? Non è così scontato, soprattutto per chi viene dalla Juventus.
E pensi che io in bianconero non ci volevo finire! Sa, la mia storia di calciatore è bellissima.

Non desideriamo altro se non conoscerla.
Partiamo da un presupposto, allora. Quello che è accaduto a me, difficilmente ora può nuovamente capitare. A quel tempo, le squadre si mettevano d’accordo tra loro, noi non avevamo agenti o intermediari. Ad ogni modo, la Juve, sei mesi prima della fine del campionato 1963-1964, pagò un corposo anticipo al Lione per l’acquisto del mio cartellino. Ma questo è solo un antefatto: accadde infatti che giocammo, poco prima della fine della stagione, un’amichevole contro il Real Madrid. Segnai tre gol: Bernabeu rimase colpito dalla mia prestazione, e manifestò a fine partita, al presidente del Lione Maillet, l’intenzione di acquistare il numero 8, Fleury Di Nallo, e me, che portavo il 9. Voleva sostituire due giocatori impressionanti, due certi Puskas e Di Stefano. E negli spogliatoi arrivò la mia personale doccia gelata. Maillet infatti rispose: “Combin non posso venderglielo, ho già incassato dei soldi dalla Juventus”. Io alla Juventus? Non ne sapevo nulla! Nulla! Poi pensai, però, che in bianconero c’era un giocatore come Sivori, di cui ero tifoso matto dai tempi del River. Da quando ero un ragazzo lo seguivo allo stadio, in Argentina. Pensai: è un segno del destino. Ma qualcosa andò storto.

Cosa, in particolare?
La squadra era molto buona, ma purtroppo avevo un allenatore che di calcio non capiva proprio nulla, Heriberto Herrera. O almeno, non riusciva a mettermi nelle condizioni di giocare al meglio. Dopo solo un anno, la Juve aveva deciso di vendermi, ma non arrivò nessun’offerta vantaggiosa: io volevo tornare in Francia, loro spingevano per il prestito al Varese. E finii in Lombardia. Che inferno! Per carità, la squadra era di bravissimi ragazzi, ma il calcio purtroppo non si faceva davvero, e in molti accusavano me di non segnare. Non mi arrivava mai un pallone, come potevo?

In effetti realizzò due soli gol. Ma come mai finì al Torino, l’anno dopo?
Gliel’ho detto: Torino era nel mio destino. Una volta, Rocco venne a visionare una partita del Varese. Mi vide giocare, feci per mia fortuna una bella prestazione. Mi disse: “Ma come è possibile che tu sia qui?”. Gli spiegai tutto: al di là di Herrera, alla Juve proprio avevo faticato per il modo completamente diverso con cui facevano calcio. Rocco mi volle al Toro, ma mi disse chiaramente che non sarei stato titolare, che mi sarei dovuto guadagnare il posto. Per fortuna, io avevo già capito che tipo di squadra fosse quella granata. Già quando ero alla Juve, vedevo le loro partite, e pensavo che mi sarebbe piaciuto giocare lì. Mi aveva impressionato Hitchens, che reputavo un cavallo pazzo. E quando lo incontravo per strada, non nascondevo a capitan Ferrini che giocare al Toro mi sarebbe piaciuto da matti.

Il suo arrivo, quindi, fu un’intuizione di Rocco. Riuscì subito a farsi notare?
Rocco aveva una sola parola: giocava chi si meritava il posto. Feci qualche panchina, all’inizio. Poi decise di farmi scendere in campo, gradualmente. Ma se hai orgoglio, voglia di emergere, giochi bene, non c’è niente da fare. E a poco a poco ho cominciato a migliorare. Poi Rocco andò al Milan, e io rimasi, ma disse che voleva portarmi in rossonero. Ci riuscì dopo due anni, e per tutta la stagione 1968-1969 mi ripeteva: “Stai giocando troppo bene al Toro! Come faccio a prenderti? Mi costi troppo! Leva il piede, così vieni al Milan”. Chiaramente stava scherzando, ma alla fine ce la fece, e passai in rossonero.

Di Torino ha già citato diversi giocatori che hanno fatto la storia. Ne manca ancora uno: Meroni.
Ci vedevamo sempre: lui, io, Cristiana e mia moglie. Era un’amicizia profonda, vera. Sapete, la sera dell’incidente lo avevo lasciato giusto venti minuti prima. Era con Poletti, mi chiese di prendere un caffè con lui, di fronte a casa sua. Gli dissi di no, che era matto: avevamo giocato con la Samp (avevo fatto tre gol), ero stanchissimo. E già ero in clima derby. Abitavo più in fondo, rispetto a lui, su corso Re Umberto e pensavo di tornare a casa. Mi prendeva in giro, diceva che non avrei mai messo a segno una tripletta contro la Juve, che con la Sampdoria ero stato fortunato. Scherzando, lo mandai dove sapete. Furono le ultime parole che ci dicemmo, con il sorriso, prendendoci in giro, tanto eravamo amici. Era veramente speciale, Meroni (si percepisce molta commozione, ndr).

Però in quel derby, proprio in quel derby subito dopo l’incidente, la tripletta fu sua.
E lo dissi, a Gigi. Gli dissi: “Guarda come sono, ce l’ho fatta!”. Fu una partita incredibile quella. Non volevo giocarla, continuavo a dire a tutti, dai compagni al mister, che non ce la facevo, che non avevo la forza. Rocco insisteva, ripeteva che avrei dovuto farlo proprio per Meroni, che dovevo giocare. E non nascondeva nemmeno che avevo un obbligo professionale: ero pagato dal Toro per scendere in campo, non potevo sottrarmi. Ripetei al mister che non ne avevo la forza. Alla fine scesi in campo, quella partita fu favolosa. Tutta quella giornata, a dire il vero, lo fu. Quanto ero triste non si può nemmeno immaginare: Gigi era quasi come mio fratello.

È raro vedere delle amicizie così forti sia dentro, sia fuori dal campo.
Sì, lo è. Un legame come quello si trova raramente anche nella vita. Sapete, qui a casa mia in Francia ho tenuto delle foto di me e Meroni, foto preziose, che nessuno ha. Le tengo in vista, mi aiutano a ricordarlo: ho tanti di quegli episodi! Una persona come lui non si trova facilmente. In campo era talentuosissimo, e lo prendevano tutti a calci. E andavo io a litigare con i difensori! Dicevo loro di picchiare me, altro che lui! Ed era proprio Gigi a venire a calmarmi, il colmo! Non diceva mai una parola fuori posto, mai nemmeno una parolaccia: mai visto un giocatore con un’educazione e una mentalità così sane.

Qual è il ricordo più bello che Nestor Combin ha di Torino?
A parte la mia personale rivincita con la Juve, faccio fatica a trovarne uno più significativo di un altro. È stato tutto sempre bello. Sa come consideravo i tifosi del Toro? Come la mia famiglia. Quando finivo gli allenamenti dal Campo Combi, andavo in un bar vicino a via Filadelfia. Era il dopo lavoro, si trovavano un sacco di tifosi del Toro, che avevano finito il loro turno in Fiat. Giocavamo a carte insieme, o a bocce. Erano bravissima gente, stavo bene con loro, mi sentivo a mio agio. Purtroppo con la Juve non riuscii ad avere questo rapporto: probabilmente i loro tifosi erano un po’ troppo snob, molto distanti dal mio modo di pensare.

Pensa che il calcio sia molto cambiato, rispetto a quello nel quale si misurava lei?
Sì, ai miei tempi si faceva molta più fatica. Io guardo il campionato italiano, e non c’è niente da fare: tutta un’altra cosa rispetto ai miei tempi. Penso ai difensori che affrontavamo: erano assassini! Adesso appena un attaccante viene toccato, questi cade. Noi venivamo massacrati. Magari fosse stato come è ora. Vuol sapere cosa dicevo a Meroni? Quando andavamo a Catania, o a Catanzaro, insomma in campi molto difficili, duri, gli dicevo che speravo di tornare a casa con le mie gambe. Quei difensori erano dei vichinghi, ora probabilmente potrebbero al massimo innaffiare il campo (ride, ndr). I giocatori che affrontavamo noi, adesso sarebbe quasi sempre squalificati.

Il calcio resta sempre la sua attualità?
Certo, e lo è anche il Toro. Seguo sempre la squadra, finalmente si sono rialzati. E adesso c’è l’Athletic Bilbao…

Come si supera il turno?
Vincendo in casa. L’importante è vincere e soprattutto non subire nessuna rete. Almeno al ritorno il risultato sarà più al sicuro. Sono convinto che tutto andrà bene. Come si dice? Forza Toro, no?

Esattamente.
Perfetto, forza Toro! Ce la faremo!


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