Un altro racconto dall’album del prof.: torna l’appuntamento con la rubrica di Fabrizio Bellone

Eravamo amici fin dai tempi della scuola, quando andavamo allo stadio insieme. Stessa squadra, stessa curva, di un solo colore: granata. Quando mi aveva chiesto dei soldi in prestito non avevo esitato un attimo a darglieli, anche se allora per me erano davvero tanti. Lo avevo fatto di getto, senza timore, nonostante sapessi che non aveva alcuna consistenza economica. Quindi, di riflesso, non mi restava nessuna probabilità di rivederli. Viste le condizioni, non me ne attendevo la restituzione. Li consideravo dei vuoti a perdere. Invece il prestito mi era stato rimborsato, non in denaro, ma con una modalità differente, fatta di attenzioni, di telefonate, di presenze nei momenti più difficili. Di piccole e grandi cose che fanno un’amicizia. Un bel giorno, senza che glieli avessi mai chiesti indietro, me li aveva restituiti tutti, pure con un piccolo interesse. Mancavano pochi giorni al Natale, erano passati quindici anni. Aveva fatto più in fretta che aveva potuto. Poi, chissà per quale motivo, non ci eravamo più visti.

Era seduto a gambe accavallate su una sedia contro un muro, nel via vai incessante della vigilia di Natale. Aveva un bugigattolo sotto i portici di una via del centro, che non si poteva neppure definire un chiosco. Era una specie di baule con un’alzatina, poco più di una bacheca, senza aria all’interno, solo uno spazio per esporre qualche libro e qualche oggetto. Mi chiedevo come facesse a portarlo via la sera, perché non aveva le ruote ed era piuttosto massiccio. Da lontano sembrava un banchetto da mercatino delle pulci, ma c’era soltanto lui e nessun altro a vendere le sue povere cose. Non era un abusivo, doveva avere un permesso permanente, perché mi pareva di averlo sempre intravisto lì. Era intabarrato nel suo cappotto, con una sciarpa legata attorno al collo e un cappello calato sugli occhi, con pon pon dello stesso colore, un colore che mi piaceva fin da piccolo. Non mi ero mai fermato a osservarlo, né a decifrare quali oggetti proponesse nel suo misero banco. Stavolta lo avevo guardato da una certa distanza, per comprendere. Poi mi ero avvicinato. Lui restava seduto sulla sua sedia di legno impagliata a leggere un giornale. Improvvisamente mi accorgevo di lui, lo squadravo, scorgevo le sue reliquie, le sue rarità. Non ci potevo credere, in esposizione aveva solo oggetti del Toro, del mio Toro. Come avevo fatto a non accorgermene prima? In quel misero e ristretto spazio erano esposte magliette degli anni ’60, ripiegate come neanche mia nonna sapeva fare. C’era una collezione di cuscinetti da stadio, rigorosamente addossati uno all’altro. Un 33 giri che amava ascoltare mio padre, con le registrazioni di alcuni scorci di “tutto il calcio minuto per minuto”. Volantini, depliants, adesivi, giornali, riviste, Alè Toro e Guerino d’annata. E molto altro: fotografie, stampe, caricature, ritagli e fotocopie, dal Grande Torino, fino a quello che giocava al Comunale. Aveva persino una batteria di trombe a più toni, di quelle che suonavano incessantemente in curva negli anni ’70 per incitare la squadra. Erano autentici tesori, alcuni dei quali con mezzo secolo di storia sulle spalle. Cercavo qualcosa di recente, che mi riconducesse perlomeno al Delle Alpi, ma non c’era nulla. Volevo chiedergli di lui, del suo mondo e di quello che esibiva, ma continuava a leggere il suo giornale, come se la cosa non lo riguardasse. Ero pure assalito dal dubbio che tutto questo ben di Dio non fosse in vendita, forse si trattava soltanto di un’esposizione estemporanea di trofei, un piccolo museo a cielo aperto. Perché disfarsi di quei cimeli, erano forse troppo ingombranti per continuare a portarli con sé? In mezzo a mille emozioni che si risvegliavano, la mia attenzione si era focalizzata su una piccola cosa, in un angolo del banco. Quanto mi mancava un oggetto così, quanto importante era stato nella mia formazione personale! Avrei voluto poterlo tenere sul comodino da letto, o poterne parlare in uno dei miei racconti. Magari mostrarlo una sera in televisione, durante la trasmissione in cui ero ospite. Continuavo a fissare il pezzo e poi a guardare lui, prendevo quell’oggetto in mano, lo rigiravo tra le dita e mi rideva il cuore. Il tipo sembrava non accorgersi di nulla. Sarò stato dieci minuti a palpare i suoi affetti, magari pure di più, perché il tempo sembrava immobile. Quello continuava nella sua lettura. Ero troppo preso, quindi avevo puntato deciso verso la sua sedia e gli avevo chiesto se vendeva. L’amico aveva alzato lo sguardo, aveva sorriso ed era tornato a leggere il suo giornale, piuttosto compiaciuto. Gli avevo detto che la sua merce non aveva prezzo, perché le emozioni non si comprano, non si possono pagare. Mi aveva domandato che cosa mi fosse piaciuto così tanto da farmi, finalmente, accorgere che il suo banco era reale, che lui esisteva. Gli avevo mostrato il pezzo. Gli avevo chiesto quanto volesse per vendermelo. Per tutta risposta aveva posato il giornale sulle gambe e mi aveva detto: “ti ho riconosciuto, tu sei il prof del Toro”. Poi, senza darmi il tempo di reagire: “prendilo”. Avevo messo la mano al portafoglio, prima che potesse ripensarci, ma ero imbarazzato. Non sapevo se chiedergli quanto costava o se offrirgli una cifra, domandando se poteva bastare. Avevo mille altre domande da fargli. Mi aveva anticipato con un gesto secco della mano, che significava di metter via il denaro. Poi aveva insistito: ”tienilo per te e per i tuoi figli, se ne hai. Non mostrarlo in giro. È l’unica cosa che ti chiedo”. Avrei voluto saperne il motivo, perché privarsene e impedire ad altri di ricordare il fascino e di conoscere il mistero che questa reliquia portava con sé. Avrei voluto capire, con lui, che cosa il tempo ci aveva fatto, ma non era più possibile. L’udienza era terminata, aveva già ripreso il giornale in mano ed era tornato nel suo mondo. Non aveva nessuna intenzione di farsi disturbare nella sua lettura.

Qualche tempo dopo ci sarebbe stato un altro incontro. Se ne passeggiava tranquillo sotto i portici di via Cernaia e lo vedevo da dietro. Credevo che avesse uno stendino per le mani. L’ho affiancato e mentre lo superavo ho capito che era un’altra cosa. Sotto il braccio aveva un materasso, avvolto in un telo di nylon. Lo portava con sé a fatica e con grande noncuranza degli altri, ma con evidente attenzione a non fargli toccare terra. Non ero certo di conoscerlo, quindi l’ho guardato bene mentre lo superavo. Aveva i capelli spettinati, ma puliti; la barba lunga, ma curata; i vestiti fuori moda, ma ordinati. Né giovane, né vecchio, come può essere una persona che ha smesso da tempo di credere in se stesso. Ho pensato ad un clochard, era un clochard. Volevo saperne di più, quindi ho finto di guardare una vetrina in modo che mi superasse, mi sono guardato attorno e ho ripreso a camminargli alle spalle. Con molta discrezione l’ho seguito. Ha proseguito per circa duecento metri, poi s’è fermato in un angolo. Ha posato le sue cose, ha sfilato il materasso dal nylon, senza fargli toccare terra, con enorme sforzo e con attenzione maniacale. Ha fatto tutto da solo. Ha appoggiato il nylon a terra e ci ha disteso sopra il materasso. Prima di coricarsi ha tirato fuori le sue cose, da un sacco che portava non so come sulle spalle. Ha messo quasi tutto sotto il materasso, tranne le coperte e una foto. Ha spiegato le coperte su di sé, per ripararsi dal gelo di fine dicembre ed ha appoggiato la foto di fianco al capo. Una foto della squadra dello scudetto del ’76. Poi si è steso e si è girato verso il muro. A quel punto mi sono avvicinato ed ho osservato meglio. Non c’era solo la foto di fianco a lui, c’era anche qualcos’altro. Un oggetto. Un pezzo unico, che ero certo di avere sul mio comodino.


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angelo62
6 anni fa

mi associo di cuore agli auguri

ExIgneFaxArdetNova
6 anni fa

Bella storia Prof., una di quelle storie che ti prendono lo stomaco. Buon Natale a tutti i fratelli granata

Cairoforever ( Rob 62 )

Altrettanto a te e famiglia fratello?

Tra l’Europa e la Lazio, aspettando un domani

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