Tornano gli emozionanti racconti a tinte tutte granata de “Dall’album del prof”, la rubrica curata dal Prof. Fabrizio Bellone

Quel pomeriggio del 14 dicembre io c’ero. Ricordo bene il gol di Zac che ci aveva portato in vantaggio dopo appena un quarto d’ora. Avevamo chiuso il primo tempo in vantaggio, ma il Milan aveva pareggiato con Maldera in apertura di ripresa. C’erano poco meno di 40 mila spettatori a seguire la gara, pochi per i rossoneri di quel tempo, segno che, forse, tra di loro c’era qualcosa che non andava, anche se sarebbero arrivati terzi alla fine della stagione. Di quei 40 mila, almeno uno su quattro era granata, come me. Faceva freddo in quella domenica prenatalizia, ma non lo avevo più sentito quando Ciccio Graziani aveva messo in rete il suo regalo per il 2-1 finale. Una gioia indescrivibile, per la prima volta vedevo il Toro vincere a San Siro. Finita la partita la gente aveva cominciato a sfollare ed era allora che avevo sentito quel coro. Era partito in sordina, lontano. Poi era salito di intensità e mi aveva avvolto. Non erano i ragazzi della gradinata a cantare. Ci guardavamo tra di noi e non capivamo. Era come se salisse dal basso. Allora mi ero buttato verso la balaustra, a guardare giù nel primo anello e avevo capito. Alè Toro – alè Toro- alè-alè-alè. Quel canto proveniva dai settori più cari, dove avevano trovato posto migliaia dei nostri, che non erano in gradinata. Si faceva sempre più forte e saliva verso il nostro anello. Avevamo aggiunto le nostre voci. Mentre San Siro sfollava, noi granata salutavamo un successo storico, cantando la nostra gioia.

In quegli anni a Milano andavo ogni campionato, sia con il Milan, sia con l’Inter. Sempre e solo per vedere il Toro. Con gli amici avevamo un gioco che era una specie di rito. Chi perdeva doveva pagare a tutti i biglietti della Metro che prendevamo tra Centrale e Lotto, perché viaggiavamo rigorosamente in treno. Pareggio senza reti l’anno successivo, poi timbro di Pupi per l’1-1 dell’anno dopo ancora. Il 10 dicembre di tre anni da quella vittoria ci ero tornato di nascosto dalla mia ragazza, alla quale avevo raccontato una balla su un viaggio al mare per motivi imprecisati. Continuavo ad esserci.

Come c’ero il 9 maggio 1982, quattro giorni dopo la finale di Coppa Italia persa con l’Inter. Penultima di campionato, il Milan rischiava la retrocessione. I Leoni avevano rinunciato alla trasferta, perché non si trovavano biglietti. Il Torino non ne aveva, sosteneva che i club non li avessero richiesti. In realtà i popolari erano esauriti per le ultime speranze di salvezza dei rossoneri. Il giorno prima era morto Gilles Villeneuve. Non ero appassionato di Formula Uno, ma un mito lo avevo e, adesso, l’avrei perso. Il mattino della partita avevo definitivamente perso anche la ragazza che, nella mia immaginazione, sarebbe stata la mia donna per la vita. Mi aveva lasciato senza appelli. Nel primo pomeriggio avevo pagato seimila lire a un bagarino per il mio diritto al piacere settimanale e avevo raggiunto gli amici al posto convenuto. Eravamo una dozzina, bene assortiti. Quel pareggio senza reti lo avevo vissuto tutto d’un fiato. Il Milan sarebbe retrocesso in serie B. Solo al ritorno, nel chiuso del vagone, avevo realizzato che anche io mi sentivo finito.

Un anno e mezzo dopo ero tornato, ancora una volta a ridosso di Natale. Il venerdì era nevicato, il sabato avevo fatto un salto al Fila. Il 18 dicembre il treno era in ritardo, ma non mi aveva impedito di buttar giù una pasta alla carbonara da un’amica. Beppe Dossena aveva timbrato la gara, 1-0 per noi. Nel dopo partita timidi accenni di scontri, ma nulla di significativo. Poi l’amica aveva organizzato una bella serata, cena e chitarra. Mi ero messo con Luisa, poi avevo preso il treno di mezzanotte, alle due avevo accompagnato Sandrino a Moncalieri ed ero rientrato a casa. A letto alle tre, cinque ore dopo sarei stato puntuale al lavoro. Per il Toro c’ero sempre.

Come c’ero il 24 marzo 1985, quando Walter Schachner mi aveva dato la gioia della vittoria e la speranza di veder vincere un secondo scudetto. Era stato ancora una volta il treno a riportarmi a San Siro, quello stesso treno che da un anno utilizzavo ogni fine settimana per andare dalla mia ragazza meneghina. Sei giorni prima, per litigare con lei, avevo perso l’ultimo della notte e avevo promesso 220 mila lire ad un taxista perché mi riportasse a casa. Non le avevo nemmeno tutte, ma dovevo avergli fatto una gran pena. Non volevo stare un minuto di più in quella città. Ancora oggi ci penso e rido per non aver saputo darmi malato al lavoro il mattino successivo. Evidentemente non era nel mio stile. Dopo il gol di Schachner, Luisa mi aveva piantato. Un addio senza baci, né carezze. Freddo come una notte di finta primavera, duro come una sconfitta in casa. Ma noi avevamo vinto e lo scudetto, forse, sarebbe stato dietro l’angolo.

Il titolo non era arrivato, ma pure negli anni ’90 avevo continuato ad andarci, anche se non era più la stessa cosa. Intanto lo stadio si chiamava Meazza già da qualche tempo, poi la costruzione del terzo anello ne stava modificando una struttura che, per me, sarebbe cambiata in peggio. E poi ero passato dall’altra parte della barricata, nel senso che seguivo il Toro come radiocronista, non più come tifoso. Non era stato facile digerire l’autorete di Cravero che ci aveva condannato alla sconfitta del sabato di Pasqua 1991, persino peggio della cena dozzinale che avevo consumato sulla strada del ritorno. L’anno successivo ne avevamo prese due e alla postazione 194, la mia, non c’era linea. Per trasmettere quella radiocronaca avevo dovuto trovare una soluzione “creativa”, chissà di avrà pagato quella bolletta. Sul treno del ritorno avevo conosciuto una ragazza di sedici anni, che viaggiava da sola con la sciarpa granata, di ritorno da quella sconfitta. La sua fierezza e le sue certezze mi avevano colpito, mi ricordavano qualcuno che c’era sempre e sempre ci sarebbe stato.

L’ultima vittoria a cui ho assistito è quella, beffarda, del 23 settembre 2000. Si giocava durante le Olimpiadi di Sidney, tre giorni dopo aver perso in casa con il Venezia. Erano gli ottavi di finale di Coppa Italia, gara di ritorno. Avevamo vinto 1-0, gol di Schwoch, peccato che all’andata ne avessimo presi tre in casa. Da allora solo delusioni: quel pomeriggio di marzo, quando non bastò un rigore di Ferrante; la batosta del 2002, un 6-0 da far vergognare tutti, tranne i nostri tifosi, che, uscendo dal settore ospiti, guardavano truci tutti quelli che osavano incrociarne lo sguardo; le cinque sberle del 2009, in notturna, con l’inutile gol di Franceschini.

Ho sempre amato Milano e le trasferte in quello stadio. Nella mia vita ne conto 32, dai tempi della Fossa dei Leoni e dei Commandos Tigre, all’ultima volta una sera di dicembre, pari con gol di Immobile. Da qualche anno ho smesso di andarci. Tocca al mio Toro, adesso, convincermi a tornare. Ragazzi, battete un colpo. Perché io voglio continuare ad esserci.


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ExIgneFaxArdetNova
6 anni fa

Bei ricordi…

Gianluca
Gianluca
6 anni fa

Beh, la sera del gol di Immobile era solo piĂą in lĂ …comunque dopo Capodanno…ma era stato un gran bel Toro. Che errore Farnerud, saremmo andati 0-2! Comunque quel pareggio, unito al pareggio incredibile dell’andata (quando il Milan meritava di perdere di due gol e pareggiò 2-2 non tirando mai in… Leggi il resto »

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